Per la stagione lirica del Sociale, il palcoscenico comasco ospita una nuova versione della Medea di Cherubini: tra neoclassicismi napoleonici ed effetti speciali, la Colchide e i suoi abitanti diventano pezzi da museo in una Parigi fine-settecentesca. Conseguenze? I quadri si alzano come saracinesche e Medea incede cattivissima.

L’opera lirica Medea (Médée) fu rappresentata per la prima volta a Parigi, il 13 marzo 1797; lungo i due secoli seguenti le parti recitate tipiche di ogni opéra comique sono state sostituite dai recitativi e al francese è subentrato l’italiano, ma nel complesso l’opera è rimasta la stessa: un’appassionata tragedia greca congelata nella correttissima musica del maestro Cherubini. Così Carmelo Rifici, regista della versione di Medea presentata a Como in collaborazione con il Circuito Lirico Lombardo, decide, con un’interessante idea scenica, di lasciare l’opera là dove il suo autore l’ha musicata, di ambientarla «nella Parigi di quel fine secolo sconvolta da una Rivoluzione che stava spostando l’asse sociale mondiale e si apprestava ad affrontare il pe
riodo di Terrore, e subito dopo di Restaurazione, tra i più duri e impietosi della storia dell’umanità.».
Come? Trasportando tutto e tutti, il re Creonte e sua figlia Glauce, l’ambiguo Giasone e il suo vello d’oro, Medea, i suoi figli, la sua ancella e le sue magie, in un museo.

«La fin de siècle» continua infatti il regista «era freneticamente alla ricerca di un legame con il proprio glorioso passato: l’architettura e la scultura recuperavano i modelli delle civiltà che avevano originato il moderno Occidente, riaprivano i musei, impazzava la passione per l’archeologia e per i viaggi alla scoperta degli amati Antichi. Ecco allora che, nel nostro allestimento, il palazzo di Creonte a Corinto si trasforma in una stanza di uno strano museo, e mentre un coro di visitatori si muove inquieto tra le sue stanze, nei quadri prendono vita i protagonisti del Mito»
Detto fatto: su un palco molto spoglio i dipinti rappresentanti le battaglie napoleoniche si mescolano alle bianche statue greche e tra le tre pareti verdi e dorate antico e moderno, classico e neoclassico, si fondono con naturalezza, si danno appuntamento nell’unico luogo dove un loro incontro è possibile.

All’apertura del sipario, il museo si offre in disordine, senza catalogazioni, le teche che mano a mano compaiono sembrano contenere tutto alla rinfusa, scudi, busti immacolati, spade, vasi. Con il secondo atto si inizia ad etichettare, e dei facchini davvero troppo lenti per essere credibili (e apprezzabili) portano e spostano casse con impresso il nome dei più famosi musei d’Europa, impacchettano statue, riordinano reperti. E per finire, nel terzo att
o ad essere esposti restano solo animali selvatici imbalsamati: non ricordi di un passato ammirabile, guardato con nostalgia, ma frammenti del presente, di un presente selvaggio con cui ci si è potuti rapportare solo mummificandolo. Allo stesso modo, suggerisce la scena, si è fatto con Medea, che, sempre citando Rifici, «non può sottrarsi dall’essere “ricomposta e riassorbita” nell’arte e dalla storia, attraverso un saggio, un quadro, una statua».

Fin qui, tutto chiaro. Nonostante le brutte luci che non permettono di riconoscere le immagini dipinte sulle tele (Giasone e Medea le indicano e guardano, l’uno con ribrezzo l’altra con nostalgia, ma il pubblico purtroppo non vede abbastanza per capire) e l’ordine e la staticità davvero eccessivi delle scene, il messaggio passa, è comprensibile e valido, convincente. Creonte e tutta la classe dirigente vorrebbero imbalsamare Medea, e forse ci riescono, come suggerisce la bellissima e (troppo?) fugace scena in cui un quadro, forse addirittura un bozzetto scenico, rappresentante Medea sola nella grande stanza verde passa sul palco ed è subito confezionato, nascosto e portato via, ancora prima che la sequenza lì dipinta si sia svolta. Medea è domabile, le sue azioni possono essere ridimensionate ed edulcorate proprio rendendole subito, forse ancora prima che accadano, leggenda, e quindi passato, bloccandole nella fissità funerea di un quadro.

A creare confusione semiotica, però, un dettaglio: anche Creonte (personaggio tra l’altro ottimamente interpretato) e la sua corte escono dai quadri, dalle cornici, sono, a sentire il regista, parte di «un’aristocrazia che ha desiderio di cristallizzazione, di diventare una teca da museo che possa essere ammirata.». Quindi, perchè riservare lo stesso trattamento a Medea? Perchè cementificarla nell’arte, se il rischio è quello che lei, cellula impazzita che rifiuta la Restaurazione, venga esposta esattamente come loro, come gli artefici del castrante riordino della realtà? Il dubbio resta, e si somma alla sensazione che ci si sia scordati dell’aspetto uditivo. Se sul palco si vede l’involucro, lo sfondo del difficile passaggio da Rivoluzione a Terrore,
il caos non si sente. Non si sente niente. O meglio, si sente altro: la musica non parla di questo, quella di Cherubini è tutta un’altra musica. Questo bel museo è davvero pronto e adatto a contenere la tragedia di una madre che uccide i propri figli per affermare i propri diritti di moglie e di donna? Maria Billeri, l’interprete della protagonista, conduce la sua bellissima voce con il passo pesante e il viso arcigno di una cattiva della Disney, un po’ Malefica della Bella Addormentata, un po’ Maga Magò, e il suo dramma, il suo enorme conflitto, sparisce, lasciando il posto ad una strega obbligatoriamente antagonista.

Tra trovate affascinanti e dettagli poco curati, la musica scorre fluida, in un’algida aurea di perfezione ed indifferenza. E per finire, lampi alla Frankenstein.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Sociale
via Bellini, 3 – Como
Medea
musica di Luigi Cherubini
libretto di François Benoit Hoffman da Euripide. Traduzione italiana di Carlo Zangarini
Interpreti: Luca Tittolo (Creonte), Eleonora Buratto (Glauce), Lorenza Decaro (Giasone), Maria Billeri (Medea), Alessandra Palombo (prima ancella), Arianna Ballotta (seconda ancella), Pasquale Amato (capo delle guardie del re)
direttore: Antonio Pirolli
regia: Carmelo Rifici
scene: Guido Buganza
costumi: Margherita Baldoni
light designer: Paolo calafore
maestro del coro: Antonio Greco
coro AsLiCo del Circuito Lirico Lombardo
orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano
coproduzione Teatri del Circuito Lirico Lombardo