La metamorfosi che trasforma se stessa

Un audace Roberto Latini propone al Teatro Vascello una versione del classico di Ovidio stravolgendolo dall’interno e scomponendolo in tanti episodi.

Ci sono diversi modi di approcciarsi a un classico della letteratura classica, che come le Metamorfosi di Ovidio a distanza di millenni mantiene intatta la proprio forza espressiva e poetica. L’orizzonte della nostra cultura e del nostro immaginario sono a tutt’oggi determinati dall’energia impareggiabile dell’opera del poeta latino, che attraverso il racconto elegiaco della storia dei miti è riuscito a realizzare un monumento immortale che ancora ci parla del rapporto tra umano e divino, tra fato e libertà, tra disperazione e sentimento.
La maestosità di un testo del genere metterebbe in difficoltà qualunque autore avesse la malsana idea di tradurlo in linguaggio drammaturgico, portandolo in scena più di duemila anni dopo, snaturandolo da subito e facendo slittare la specificità poetica del testo nella messa in scena teatrale. Bisogna avere una consistente dose di follia,  essere degli sperimentatori incalliti per compiere un’operazione talmente iconoclasta e blasfema; e se nella scena del teatro contemporaneo italiano c’è un autore che risponde a tale profilo e che poteva compiere tale “misfatto” non poteva che essere Roberto Latini.

Il regista, autore e attore romano non è nuovo a progetti di questo tipo, perché per il suo stile eccentrico il testo classico diventa materiale da smontare, rivoltare, da rendere irriconoscibile, in quanto proprio nel momento stesso in cui esso diventa altro da ciò che la cultura ufficiale ha consolidato nel corso dei secoli, quei testi riacquisiscono la proprio carica propulsiva, il loro significato e la loro abissale quantità di significati.

Latini porta al Teatro Vascello una versione “assurda” e allucinata delle Metamorfosi di Ovidio e il sottotitolo che recita (di forme mutate in corpi nuovi) sottolinea quale fosse la sua intenzione, innanzitutto focalizzarsi sulla “metamorfosi” in sé. Perché, se Ovidio narra le metamorfosi, queste trasformazioni non possono lasciare inalterato il testo stesso, come se l’energia inarrestabile della mutazione non potesse non riguardarlo mentre si autodivora in un movimento a spirale autoriflessivo dove è l’originale stesso a svanire. La metamorfosi trasforma, in pratica, se stessa. Se si vogliono narrare le metamorfosi, non si può non passare attraverso una trasformazione dell’originale che le narra: questo il progetto audace di Latini, uno spettacolo assolutamente inedito che frammenta le Metamorfosi in una serie di episodi che coprono diverse ore di messa in scena.

Dell’originale resta poco, ma è un “poco” che è tutto, mentre il “resto” (che, sosteneva Hölderlin, è fondato dai poeti) coincide con l’“altro” cui lo spettacolo fa riferimento celandolo e distruggendolo.
Questo “altro” è dunque tutto, mostrando come Latini conosca bene l’infinità dell’opera ovidiana e la sua capacità di resistere a qualsiasi messa in scena che la oltraggerebbe: la risposta di Latini è portare tale oltraggio a coscienza, renderlo evidente e sbatterlo con irruenza alla visione degli spettatori. Questo perché ciò che ricerca Latini non è una maggiore comprensione dell’originale, ma il valore dello slittamento perpetuo di senso che si verifica tra l’originale e la sua estrema rilettura e trasposizione.

Nel “tra”, che si pone nello spazio vuoto, abissale e liminare, che separa le Metamorfosi di Ovidio e le Metamorfosi di Latini, si gonfia un nuovo e inedito livello di senso; il testo originale ricompare per esempio nei versi meravigliosi del monologo di Orfeo, che implora gli dèi dichiarando il suo amore infinito per Euridice, ma anche nelle indimenticabili parole che compongono il racconto della Peste: sono brandelli classici che ricompaiono contornati di clown che mugugnano e compiono atti senza senso, talmente “irrispettosi” (nei confronti della grandezza del testo che in teoria dovrebbero rappresentare) da risultare inquietanti. Gran parte dell’efficacia dello spettacolo è attribuito ai corpi, tanto che la coreografia è complice di un disegno luci e di una regia che “devono” essere di estremo livello se non vogliono far diventare lo spettacolo un ammasso di azioni sconclusionate destinate al caos.

Latini riesce in parte nella sua impresa, ma non a caso solo lì dove il testo di Ovidio è maggiormente presente, perché se il suo obiettivo è lo slittamento di senso e il cortocircuito tra il verso classico e lo strampalato circo in scena, questo è possibile solo quando i versi del poeta latino sono recitati chiaramente e solennemente. Quando i versi cedono alla scena, allora Ovidio scompare, e lo strampalato circo si svuota senza rimandare ad alcun “tra” e ad alcun senso “altro”. In altri termini, senza Ovidio lo spettacolo non sarebbe che una sciarada caotica e compulsiva, e questo Latini lo sa bene, seppure in diverse occasioni sembra dimenticarlo, lasciando troppo la mano al suo estro di regista e trascurando Ovidio. Ma d’altronde, le Metamorfosi sono talmente grandi che l’unico modo appropriato di relazionarsi a esse sembra quello di perdercisi.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Vascello
Via Giacinto Carini, 78 – Roma
dal 18 al 22 maggio

Fortebraccio Teatro presenta
Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi)
da Ovidio
traduzione Piero Bernardini Marzolla
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti
luci Max Mugnai
costumi Marion D’Amburgo
con Ilaria Drago, Alessandra Cristiani, Roberto Latini, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Sebastian Barbalan , Alessandro Porcu
Esklan Art’s Factory
direzione tecnica Max Mugnai
organizzazione Nicole Arbelli
riprese video Mario Panto