Nella valle delle rose

Anche in Italia dovremmo issare la bandiera al contrario: è ora che qualcuno, come il Tommy Lee Jones di Nella valle di Elah, abbia il coraggio di dire che abbiamo perso la bussola.

Ormai le guerre (quelle che qualche commentatore televisivo e i politicanti continuano a chiamare missioni di “pace”) non si fanno più per vincere, ossia per sconfiggere un nemico del nostro Stato che ci minaccia all’interno del nostro stesso territorio, bensì per destabilizzare intere aree geopolitiche. A volte, per distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dagli amorazzi di un Presidente o per scalzare un leader politico che preferisce fare affari con l’Italia piuttosto che con la Francia. Altre volte, per rinnovare i propri arsenali, deviare la costruzione di oleodotti, scalzare un Presidente votato da quasi il 90% degli elettori perché Cina e Russia non permettono di imporre sanzioni al suo Paese, e così via.
Il leader che il giorno prima si ospitava in pompa magna e con il quale si pasteggiava sotto una tenda, o del quale si ammiravano le scarpe (Bush e Saddam le ordinavano dallo stesso stilista, rigorosamente italiano), diventa un feroce dittatore e lo sceriffo del mondo dal ciuffo arancione – come tutti i suoi predecessori – tuona mentre il mondo ubbidisce.
In questo universo ormai segnato da una never ending war, ecco che la voce e il corpo di Giuliana Musso incarnano il dolore della madre (vera e per antonomasia) del soldato ucciso in Afghanistan (ma potremmo scrivere in una delle tante missioni di “pace” che ci vedono protagonisti da ventisei anni, ovvero dalla Prima Guerra del Golfo a oggi; oppure a causa di quei proiettili all’uranio impoverito che bisognava raccogliere senza protezioni per dimostrare che non erano pericolosi).

La Musso incarna cadenze e psicologie con mano gentile e sincero rispetto, trovando i toni più appropriati per la madre rassegnata, eppure dotata di una vena dolcemente surreale, del primo personaggio. Ma soprattutto incarna la forza della disperazione che rende rabbiosi eppure lucidi nella denuncia e nella visione chiara di ciò che sta accadendo, propria del secondo personaggio: passionale e, al contempo, ferocemente cristallino. Convince un po’ meno il terzo ritratto, per quel suo rappresentare una famiglia di pacifisti (dove, però, tutti gli uomini sono stati Alpini), per il voler giustificare un figlio che va in guerra per difendere la Costituzione e la patria (dimenticandosi l’articolo 11 di quella stessa Costituzione che i pacifisti da 26 anni continuano a rivendicare senza che nessuno, da destra a pseudo-sinistra, gli dia ascolto; e dimenticandosi che nessun afghano ha mai attaccato la nostra “patria” – termine scivoloso e francamente un po’ stantio come quello della mater dolorosa).
Nel complesso una eccellente prova attorale, una scenografia scarna ed essenziale che esalta nei suoi chiaro-scuri un testo, bello e pastoso, ben calibrato e con ritmi precisi – intessuti di cadenze a volte sognanti, altre volte potentemente incisive.
Un plauso, infine, per aver posto nuovamente al centro della scena (perché il teatro deve essere specchio della propria società) il discorso della guerra, anzi delle tante troppe guerre nelle quali stiamo combattendo senza alcuna ragione: perché, come Giuliana Musso ricorda: “Non esiste il bene assoluto, e quindi nemmeno il male assoluto” – Presidenti Usa consentendo.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Cantiere Florida

via Pisana, 111r – Firenze
sabato 21 ottobre, ore 21.00

Mio Eroe
di e con Giuliana Musso
collaborazione alla drammaturgia Alberto Rizzi
scene e assistenza Tiziana De Mario
musiche eseguite da Andrea Musto
direzione tecnica Claudio “Poldo” Parrino
foto Adriano Ferrara
sarta Nuvia Valestri
organizzazione Miriam Paschini
produzione La Corte Ospitale