Quanto è rivoluzionario il Mistero buffo?

Ugo Dighero riapre la stagione teatrale al Brancaccino di Roma portando in scena due episodi del Mistero buffo di Dario Fo, a cinquant’anni esatti dalla sua prima rappresentazione alla Statale di Milano, nel maggio del ’69, intrattenendo il pubblico con sorprendente energia e vis comica.

Il Mistero buffo di Fo, a distanza di mezzo secolo dalla sua prima messa in scena e nonostante gli oltre cinque mila allestimenti in cui è stato riproposto in Italia e all’estero dal ’69 a oggi, continua a incantare il pubblico con le sue provocatorie giullarate, la satira antipuritana, gli ironici doppi sensi.

Ugo Dighero, attore dalla solida preparazione teatrale, ben prima di essere un volto televisivo apprezzato dal grande pubblico, nelle tre serate romane in cui lo spettacolo è stato in programmazione, regala una performance divertente e tecnicamente impeccabile. Da solo, sulla scena vuota, Dighero riesce a condurre l’uditorio nella dimensione fabulosa in cui si svolgono due episodi tratti dal Mistero buffo, col solo uso della voce e la gesticolazione del corpo.

Dinamico, vivace, incalzante: lo spettacolo della durata di circa un’ora e mezzo procede spedito, con un andamento regolare, fatto di silenzi pieni di attesa e di repentini scoppi di risa. I due monologhi, preceduti da una breve introduzione che riassume i momenti salienti delle storie narrate, vengono sciorinati con abilità e scioltezza, nonostante l’impiego del gramelot, l’idioletto di matrice lombarda inventato da Fo, che – per la sua ritmica peculiare e la forza onomatopeica – ci proietta in un universo popolare lontano nel tempo e nello spazio.

Come un cantastorie medievale, Dighero racconta la vicenda del primo miracolo di Gesù bambino, tratta dai vangeli apocrifi: il figlio di Dio, fuggito in Egitto per salvarsi dalla strage ordinata da Erode, cerca di farsi nuovi amici sbalordendoli con la trasformazione di piccoli mucchi di fango in animali veri. Il “Palestina”, così era stato soprannominato dai compagni di gioco che volevano emarginarlo, diventa il piccolo eroe della banda, facendo però incapricciare il figlio del padrone del villaggio che per vendicarsi calpesta tutte le statuette di fango. A questo punto, Gesù reagisce d’impulso fulminando lui e il suo cavallo; poi, dopo essere stato sgridato dalla madre Maria, lo fa risorgere. Il racconto, ideato da Fo, è esilarante; questa versione “umana, troppo umana” di Cristo e della sacra famiglia, per non parlare di Dio padre, scuote i sublimi dogmi della Rivelazione trascinandoli in un’atmosfera folcloristica, con evidenti effetti di comicità.

La parpaja topola è il titolo del secondo monologo, che trae origine da un fabliau (favolello) osceno, risalente al XII secolo e diffuso tra la Francia del nord e la Provenza. I protagonisti della storia sono Giovanpietro, un capraio ingenuo che inaspettatamente si arricchisce ereditando una fortuna, e la bella Alessia, una fanciulla in fiore concupita da un prete libidinoso e senza scrupoli. In mezzo, la mamma di lei, la Volpassa, che impone al prete di trovare un marito alla figlia se vuole continuare ad averla senza scandalo.

Don Faina pensa subito a Giovanpietro e combina le nozze. Lo ius primae noctis se lo gode il prete, mentre il capraio è impegnato a portare a casa la suocera al di là del bosco, per poi dovervi ritornare a cercare la parpaja topola, che l’Alessia dice di aver dimenticato nella fretta. Giovanpietro non ha mai visto il sesso femminile (alias, la«farfalla topolina») e crede all’assurda scusa dell’Alessia che, dopo aver soddisfatto le voglie del curato, lo tiene alla larga. Dopo avere inseguito ovunque l’oggetto del desiderio, un topolino di campagna nascosto dalla Volpassa dentro a un cesto, il candore di Giovanpietro finirà per conquistare il cuore della spregiudicata villica.

Guizzi verbali, motti di spirito, metafore allusive intrattengono il pubblico, dando una concreta dimostrazione alla tesi freudiana secondo cui l’effetto piacevole del motto tendenzioso dipende dal «risparmio sul dispendio richiesto dall’inibizione o dalla repressione» operata dalle convenzioni sociali e dai sistemi di potere costituiti. «L’opera di rimozione della civiltà – osserva il padre della psicoanalisi – fa sì che certe possibilità di godimento primarie, ma ora ripudiate in noi dalla censura, vanno perdute. Ogni rinuncia però costa assai cara alla psiche dell’uomo, ed ecco che il motto tendenzioso offre un mezzo per rendere nulla la rinuncia, per recuperare ciò che è andato perduto».

In questa prospettiva, il Mistero buffo di Fo e l’efficace interpretazione di Dighero paiono ridare spazio alle ataviche pulsioni dell’inconscio, quanto meno quello del teatro. Eppure, dopo avere assistito al bis, durante il quale l’attore genovese ha recitato una sua composizione poetica di stampo futurista sull’esportazione del capitalismo e della democrazia occidentali in tutti gli angoli del globo, una domanda si è fatta insistente: l’umorismo e la comicità, una volta esaurita la loro funzione liberatoria, non finiscono per garantire una più sistematica repressione, aiutando a sopportare meglio proprio quell’esistente che tanto criticano e dissacrano?

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Brancaccino

Via Mecenate, 2 – Roma
fino al 13 ottobre 2019, ore 20.00

Mistero buffo
di Dario Fo
diretto e interpretato da Ugo Dighero
produzione Teatro Nazionale di Genova