Il linguaggio dell’eccesso

Al Teatro degli Audaci, fino al 5 febbraio, è in scena Moby Dick. Me stesso. Cerco, opera tratta dal capolavoro di Melville che ci spinge verso l’abisso.

Quando nel 1851 Herman Melville pubblicò quello che sarebbe diventato il capolavoro di riferimento della cosiddetta American Renaissance, in pochi lo intuirono quale pietra miliare della letteratura di ogni epoca; flop editoriale, pubblicato in Italia solo 80 anni dopo, Moby Dick strideva rispetto alla tradizione del romanzo ottocentesco, e venne tacciato da alcuni come semplice romanzo di avventura.
In realtà, per stile e contenuti, Moby Dick è un romanzo che annuncia e apre alla modernità: carico di descrizioni erudite, che spaziano dalle scienze naturali alla geografia, dalla storia alla Bibbia, il romanzo ha spesso come protagonista la saggistica piuttosto che l’azione. Achab è un personaggio unico, straordinario per ciò che incarna e per come ha influenzato l’immaginario occidentale: le sue vicende, e la storia del Pequod e del suo equipaggio, sono intrise di filosofia e teologia, e tutto il romanzo è una riflessione sulla fede, sul male, persino sulla società capitalistica americana che proprio a metà dell’Ottocento si stava sviluppando in maniera inarrestabile, sacrificando la dimensione spirituale per il mero utilitarismo.

Portare in scena un colosso di tale livello non è cosa facile, specie per proporne al pubblico una formula che abbatte la quarta parete invadendo il suo spazio, coinvolgendo gli spettatori fin dal foyer. Questa è stata la sfida di Enrico Maria Falconi, che in Moby Dick. Me stesso. Cerco offre una versione del capolavoro di Melville adattandolo alla scena; d’altronde, gli eventi che scandiscono il Moby Dick sono una manciata come è stato detto, e la versione teatrale estrapola dall’enciclopedico romanzo proprio tali eventi. Non solo: attraverso una serie di stratagemmi registici e coreografici, lo spettacolo propone molti dei brani del romanzo, restituendoli al pubblico in maniera fedele e in tutta la loro grandezza (a tal proposito, incisiva ed efficace la scelta di far avvicinare gli attori ai vari spettatori, facendo recitare in maniera “confidenziale” brani diversi del romanzo).

Il rischio più grande è cedere alla confusione di una grande sciarada, anche se è evidente che l’intenzione di Falconi fosse proprio questa, ovvero restituire l’atmosfera e l’inquietudine del viaggio in mare, della caccia alla balena e del travaglio esistenziale nel vortice di attori, nelle loro grida, nei loro movimenti eccessivi. È lo stesso Falconi ad assumersi il pachidermico incarico di interpretare lo shakesperiano Achab, decidendo di metterne in luce soprattutto le nevrosi e le debolezze piuttosto che l’autorità di capitano; seppure l’interpretazione convinca, avrebbe contribuito positivamente un trucco più accurato (un Achab senza barba e senza gamba di legno perde molta incisività, soprattutto dopo Gregory Peck nel film di John Huston), dal momento che i costumi e la scenografia appaiono studiate e molto ricche per tutto lo spettacolo. Inadeguate e immotivate invece le musiche, un passo falso dello spettacolo: Dalla, De Gregori, De André, ma anche Puccini e altra musica moderna mal si amalgamano tanto con il testo quanto con la messa in scena, e si dimostrano un ulteriore artificio retorico per arricchire e caricare di senso la rappresentazione. Queste musiche possono essere riscattate solo se decliniamo il sottotitolo Me stesso. Cerco al nostro presente: le canzoni dei nostri tempi dimostrerebbero perciò quanto Moby Dick racconti un viaggio dell’anima di ciascuno di noi, al di là del secolo e del luogo di provenienza; ma oltre a ciò questa musica finisce nel contribuire a questa grande costruzione “eccessiva”.
Dunque, lo spettacolo straborda come a strabordare è Moby Dick stesso: restituire la profondità di questo testo, abissale come l’oceano e sublime come la magnificente balena bianca, ha condotto il regista a una proposta che punta all’eccesso di particolari, di elementi, di coinvolgimenti spettatoriali, di attori e musiche, di urla e gesti, quando i momenti in cui traluce più chiaramente tale profondità avviene unicamente attraverso le parole di Melville. Ma il merito di aver proposto una soluzione di traduzione teatrale di qualcosa di talmente grande e eccessivo è stato comunque lodevole.

Lo spettacolo continua:
Teatro degli Audaci
Via Giuseppe De Santis 29 – 00139 Roma
fino al 5 febbraio
dal giovedì al sabato ore 21.00
domenica ore 18.00

Blue in the Face e 8P Management presentano
Moby Dick. Me stesso. Cerco
liberamente tratto da Moby Dick di H. Melville
traduzione adattamento e regia di Enrico Maria Falconi
con Enrico Maria Falconi, Simone Luciani, Ramona Gargano,Giuseppe Di Pilla,Stefano Grillo,Rachele Giannini,Patrizio De Paolis,Ettore Falzetti, Giorgio Conese,Roberto Fazioli, Andrea Polidori, Attilio Monti,Valerio De Negri, Francesca Genovesi, Matilda Terzino, Alessandra Pagano, Carolina De Nicolò,Virginia Morrea, Claudia Crostella, Simona Falconi,Irene Cannello,Enrico Dandolo, Riccardo Benedetti, Flavio Benedetti, Luciano Alberici, Maria Chiara Trabberi e Paola Trisolini,Valentina Leoni, Andrea Garramone, Federica Corda, Ilaria Pellicone, Riccardo Lecce, Salvo Barbera, Paolo Pirrocco, Asia Retico, Virginia Serafini, Adriana Pignatelli