Quando la drammaturgia contemporanea incontra i grandi classici

monica-contiIncontriamo Monica Conti nel foyer del Teatro Sala Fontana di Milano, seduta su quelle poltrone che il suo spettacolo, L’uomo, la bestia e la virtù (in scena fino al 2 febbraio), sta riempiendo ogni sera con un successo assolutamente meritato.

Diplomata in regia alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e in pianoforte al Conservatorio di Brescia, Monica Conti debutta come regista nel 1989 con Faust. Un travestimento di Edoardo Sanguineti. Da lì inizia una brillante carriera registica, in cui si alternano l’interesse per i grandi classici e gli attenti studi sulla drammaturgia contemporanea. Lo sguardo critico e profondo di Monica Conti viene riconosciuto a tutti gli effetti nel 2001, anno in cui le viene conferito il Premio Hystrio alla regia. Docente al corso di alta specializzazione per attori dell’ERT, alla Scuola Civica di Arte Drammatica di Milano e all’Accademia del Dramma Antico di Siracusa, la poliedrica regista spazia con grande maestria dalle accademie ai palcoscenici, dai grandi nomi del teatro a lavori più sperimentali, dimostrando una grande competenza e un instancabile spirito di ricerca.

 

Spicca nella sua carriera registica un interesse particolare per Pirandello (L’uomo, la bestia e la virtù, L’innesto, Sei personaggi in cerca di autore). Quali sono le tematiche pirandelliane a lei più care e perché?

Monica Conti: «Pirandello, insieme a Goldoni, è sicuramente uno dei più grandi drammaturghi internazionali. Importante è per me, ma anche per gli attori, il fattore linguistico, lo scrivere in italiano senza il filtro e la mediazione di una traduzione. La prima opera pirandelliana con cui mi sono confrontata è stata L’innesto del 2006, che nonostante fosse un lavoro poco conosciuto, si è rivelato essere un grande successo. Era un testo che indagava il tema dell’inconscio, toccando delle abissalità quasi pornografiche tra detti e non-detti che, se da un lato dipingevano tutto con una vernice di moralismo, d’altro lasciavano anche intravedere come questo fosse soltanto una facciata. Trovo che le tematiche e il linguaggio di Pirandello siano estremamente attuali e contemporanei, proprio per questa capacità di mostrarci la doppiezza e la poliedricità delle persone e delle situazioni, le maschere che indossiamo a volte senza nemmeno accorgercene. Insomma, credo che Pirandello, nella sua grande modernità, sia ancora in grado di offrirci un quadro molto chiaro e dettagliato nel nostro stare al mondo. Come ha detto anche Ronconi, riferendosi ai Sei personaggi in cerca di autore, Pirandello si presta molto anche alla didattica del giovane attore, che può sviluppare e sviscerare i temi nascosti che caratterizzano i suoi lavori, affinando la propria tecnica recitativa.

Per quanto riguarda il mio ultimo lavoro, L’uomo, la bestia e la virtù, devo dire che è stato molto impegnativo, quasi una sfida, a causa della scivolosità del testo. Ho cercato di leggere la seconda parte in una chiave noir, limitando un po’ il registro farsesco e goliardico – scelta registica piuttosto pericolosa, in quanto rende l’opera meno appariscente – per lasciare emergere la forte contemporaneità del discorso pirandelliano, il suo lato oscuro, fatto di doppiezza e di rovesci»

In Sei personaggi in cerca di autore, ma anche in L’uomo, la bestia e la virtù, troviamo una riflessione ricorrente sul rapporto tra ipocrisia e finzione. Posto che il teatro è finzione, lei come considera questo rapporto e, di conseguenza, il ruolo stesso del teatro?

M.C: «Questa dinamica ipocrisia/ finzione è molto esplicita in Sei personaggi in cerca di autore, dove vediamo da una parte gli attori che recitano la scena e dall’altra i personaggi che la vivono. Ne L’uomo, la bestia e la virtù invece sono tutti attori, che risultano però meno ipocriti degli uomini, proprio perché sono attori, e la recitazione di una parte rappresenta il loro lavoro. Non c’è ipocrisia nella finzione teatrale perché si è all’interno di un contesto esplicitamente finzionale. Un contesto che non ha nulla a che vedere con l’uomo hypokrites che finge senza essere chiamato a questa finzione.

Mentre nella tragedia greca era possibile che la maschera coincidesse con il sentire del pubblico, in una società mercantile come la nostra ci vuole la mediazione dell’attore, che è chiamato – esplicitamente – a recitare una parte per stabilire una connessione tra il pubblico e la scena»

In molti dei suoi lavori (L’uomo, la bestia e la virtù, L’innesto, La mite, Edmenegarda, La donna di pietra) lei si sofferma sulla figura femminile, in particolar modo sulla scissione della donna, considerata da una parte come essere umano, individualità esistenziale, e dall’altra nel suo ruolo di moglie/ madre. La sua può essere considerata come una sorta di denuncia “femminista”?

M.C: «Faccio subito riferimento a Emily Dickinson – autrice che mi ha ispirato La donna di pietra – nella quale è molto presente la dicotomia tra una dimensione esistenziale, rappresentata dal suo essere poetessa, e una femminilità materna, incarnata dall’amica, Susan, che è il suo doppio speculare. Oltre alla Dickinson, ci sono molte drammaturghe contemporanee alle quali mi sento molto affine e che presentano nei loro studi la complessità insita nella femminilità in questo eterno e inesauribile intreccio di donna e madre. Mi riferisco soprattutto a Elfriede Jelinek, a Sarah Kane, ma anche, nella letteratura, a Sylvia Plath, che non è riuscita a superare, ad articolare quella scissione interiore tipicamente femminile. Ancora oggi è molto difficile per le donne riuscire ad emergere, a imporsi prima di tutto come persone (come diceva Ingeborg Bachmann), nella loro pienezza sferica (per dirla con Lou Salomé). Ciò nonostante non sono e non mi sono mai sentita una femminista, quantomeno non nel senso comunemente inteso. Le mie riflessioni e i miei studi sull’universo femminile non hanno una connotazione politica – per quanto credo che la rivoluzione femminista sia stata sicuramente un momento storico-politico importante – ma si soffermano piuttosto sulla dimensione esistenziale e individuale. Nei miei lavori cerco di mostrare la donna a trecentosessanta gradi, nella sua pienezza e nei suoi conflitti interni, scavando nelle sue parti oscene e decostruendo il più possibile ruoli ed etichette, per lasciare spazio a un’indagine esistenziale»

Quali sono i suoi progetti futuri? Ci può dare delle anticipazioni?
M.C: «Adesso per la prima volta insegnerò regia all’Accademia S.Giulia di Brescia. Quindi da una parte mi dedicherò all’insegnamento, dall’altra ho intenzione di riprendere un lavoro di Sarah Kane, Crave, sul quale ho già fatto uno studio. È un testo molto contemporaneo, in cui la drammaturgia si presenta come un flusso di voci. Diciamo che amo molto alternare la drammaturgia contemporanea allo studio dei grandi classici, affrontare lavori sperimentali, mantenendo però sempre un contatto con la classicità, che trovo imprescindibile»