Ritratti d’Autore

Calenzano. Abbiamo conosciuto i fondatori del Teatro dell’Orsa a Reggio Emilia, in occasione della ripresa di Argonauti, e li ritroviamo ad Avamposti Festival con Questo è il mio nome – agito da cinque rifugiati e richiedenti asilo, che hanno trovato in Italia una seconda occasione di vita. Con loro parliamo di un’idea altra di fare teatro, dove «la convivialità è un pezzo fondante del pensiero che si crea prima e dopo il teatro»; del senso del perturbante provato vedendo i bambini battagliare a rotoli di carta igienica nei luoghi dello spaccio: «Un traguardo che abbiamo raggiunto attraverso un lavoro capillare e fecondante dell’immaginario infantile»; e della costruzione di spettacoli corali che riescono a mettere in relazione attori e spettatori, italiani e migranti, giovani e anziani, perché il loro è un «teatro che crea comunità pensanti».

Un teatro senza teatro, il vostro. Una scelta etica, estetica o una necessità?
Monica Morini: «È indubbiamente una scelta etica perché mettiamo al centro le storie e le persone. Questo ci abiterebbe a prescindere, anche se avessimo uno Stabile. Inoltre, entrambi ci siamo formati, anche se seguendo percorsi diversi, con chi metteva al centro le storie e le persone. Un teatro che nasceva nudo o, comunque, con elementi scenografici minimali e che poteva essere accolto in spazi non teatrali. Questa è, quindi, anche un’eredità della nostra formazione. Dato che il teatro che facciamo crea comunità pensanti, è anche vero che mi sento orfana non solamente di un luogo per le prove, che possiamo anche affittare, ma di un luogo che ci accolga come una casa. E infatti, quella che vogliamo fondare è la Casa delle Storie. Ossia, uno spazio dove si possano ospitare non solamente le persone che fanno teatro, ma che lo pensano, che si occupano di formazione, e dove possa esserci convivialità. Perché la convivialità è un pezzo fondante del pensiero che si crea prima e dopo il teatro».

Il progetto della Casa delle Storie, nella pratica, a che punto è?
Bernardino Bonzani: «Noi diciamo che è già partito perché anche se i progetti sono immateriali, in realtà hanno più importanza quando sono dentro di noi. Ovviamente, ci sono aspetti pratici come l’identificazione della sede o la sua attivazione, che possono considerarsi come ostacoli burocratici, amministrativi e politici da superare. D’altro canto, a un certo punto noi ci siamo detti che la Casa delle Storie l’avevamo già, e ne abbiamo preso atto».
M. M.: «In altre parole, il progetto esiste perché esiste una rete di persone legate alla Casa delle Storie. Il tutto ha avuto inizio cinque anni fa, con il Bando Giovani Narratori. Da allora, formiamo giovani narratori provenienti da tutta Italia e che riportano questo segno, quello della Casa delle Storie, nei luoghi da dove provengono. Dal Quartiere Sanità di Napoli, a un Festival della Legalità in Sardegna. Queste persone sono le stesse che, in un secondo tempo, si sono riattivate in Argonauti (spettacolo itinerante, ideato da Monica Morini, Bernardino Bonzani e Annamaria Gozzi, n.d.g.) e che sostengono questa nostra necessità, dato che anche in loro il senso di appartenenza è molto forte. Ovviamente i nostri interlocutori per la sede sono le istituzioni di Reggio Emilia e, dato che in questo momento è molto forte l’esigenza della rigenerazione urbana, siamo abbastanza certi che proprio nell’area nord di Reggio ci sia il luogo deputato a diventare la nostra Casa».

Allo spettacolo Argonauti si è vista una partecipazione entusiasta di bambini. Uno tra i momenti clou, la battaglia a rotoli di carta igienica in un luogo dove le persone solitamente non si recano la sera. Come siete riusciti a creare tale clima?
M. M.: «Il lavoro che facciamo è trasversale e ci interessa molto la risposta che otteniamo delle famiglie. Ovviamente si potrebbe dire che Argonauti è uno spettacolo per adulti ma, in realtà, è per tutti, in quanto possiede livelli diversi di lettura. I bambini che danzano nei luoghi sconsigliati, tra virgolette, è un traguardo che abbiamo raggiunto attraverso un lavoro capillare e fecondante dell’immaginario infantile. Tornando alla Casa delle Storie, da dieci anni proponiamo la Notte dei Racconti, in cui chiediamo che in ogni casa, la terza notte di febbraio, si spengano televisori, cellulari e computer, si inviti qualcuno e ci si dedichi a raccontare una storia. Al termine della serata, le persone si fanno una fotografia per testimoniare la loro presenza e le fotografie, a oggi, sono migliaia. Anche questo esempio del sentirsi parte di una comunità che pensa, disobbedisce alle regole e fa, producendo storie, feconda il senso di comunità. Si crea un’apnea, gettandosi nell’incanto dell’ascolto reciproco».

In Argonauti avete collaborato anche con comitati di cittadini (ad esempio, per gli oggetti di scena, come le navi). Come siete riusciti ad avvicinare persone che potrebbero essere ostili alle vostre posizioni?
M. M.: «Parto proprio dall’esempio del lavoro con le barche. Abbiamo, innanzi tutto, contattato le persone – perché il primo sforzo è aprire un dialogo. Quindi, abbiamo incontrato i vari comitati. All’interno di ognuno, ovviamente, c’erano anime estreme e altre più aperte. Noi cerchiamo sempre la mediazione: spiegando che stiamo facendo un gesto poetico, di bellezza e per tutti, e che li vorremmo con noi. Questo invito alla bellezza non può non toccare le persone. Perché reca in sé una domanda. Così, chiediamo a ognuno: “Quali parole ti abitano da sempre? Quali sono la tua memoria? E quali ti spingono ad andare avanti?”. E di fronte a questo, chiunque, anche la persona più corazzata di pregiudizi, si sente scalfita – magari solo per un istante».

Come avete scelto gli spazi, a Reggio Emilia, dove ospitare le varie tappe di Argonauti? E quale rapporto avete instaurato con la cittadinanza?
M. M.: «Tra i luoghi toccati dallo spettacolo, due sono potenzialmente esempi di bellezza. Un piccolo parco dove si trova un orto urbano compartecipato, e un altro situato dietro a una biblioteca. Sempre lì, ai bibliotecari abbiamo chiesto se, mentre facevano i prestiti, potevano riferire alle ragazze e ai ragazzi che ne avevano voglia, che avrebbero potuto partecipare a un laboratorio e aiutarci a dipingere alcune barche per lo spettacolo. Nel caso di Questo è il mio nome e nell’elaborazione delle Gheto stories, abbiamo organizzato dei momenti per la cittadinanza durante i quali preparavamo il thè per tutti. Ci mettevamo con un fuoco da campo, una grande pentola, acqua, menta e zucchero a preparare il thè e a raccontare storie. Incuriosisce vedere un gruppo di persone, pacifico, che ogni tanto canta, ogni tanto racconta, e, oltre a offrire il thè, regala i bicchieri. Come in Le città e gli scambi (da Le città invisibili, 1972, n.d.g.) di Italo Calvino, ognuno lasciava qualcosa di sé per ripartirne diverso. Chi leggeva poteva portare un vecchio bicchiere da casa, lasciarlo e prenderne uno nuovo; gli altri bevevano e portavano via il bicchiere. Il bello era abitare spazi pubblici e vedere le persone fermarsi e restare ad ascoltare. Soprattutto se è il parco accanto all’Hortus (Catomes Tot, in via Panciroli a Reggio Emilia, n.d.g.), che è frequentato da persone anziane ma anche da spacciatori, è vicino al liceo classico ma presenta pure situazioni più difficili; in breve, è un luogo dove si ritrovano le contraddizioni della vita. Fare il thè era come celebrare un rito collettivo con i racconti condivisi, e poi, uno intimo quando i ragazzi andavano da ciascuno spettatore con un bicchiere, gli raccontavano qualcosa di personale e chiedevano uno scambio. Come avviene all’inizio di Argonauti. Si partecipa a uno tra i riti di cui siamo orfani, quello dell’ascolto».
B.B.: «Proprio su quest’ultimo punto vorrei aggiungere che una cosa che ha emozionato i giovani argonauti, era che quando chiedevano: “Chi ti ha insegnato cosa?”, gli spettatori non rispondevano immediatamente, magari dicendo quello che gli passava per la testa, ma ci pensavano su. A volte passava anche un minuto e, si badi bene che due persone sconosciute che stanno una di fronte all’altra per un minuto in silenzio, creano quasi un abisso. Ma poi gli spettatori davano piccole risposte autentiche, il che li gettava in una situazione di empatia – sebbene si fosse in un parco, con tutte le interferenze possibili».

Sulla scena hanno lavorato, fianco a fianco, liceali e migranti. Qualche difficoltà all’inizio per instaurare la relazione?
M. M.: «Il lavoro teatrale si basa su un corpo che si libera e prova fiducia nell’altro, passando per tutti quegli esercizi che invitano all’ascolto reciproco e al superamento delle barriere che ci portiamo dentro. Per quanto riguarda le storie, si inizia sempre dal racconto incrociato perché le cose più intime si rivelano a due. E poi ognuno si fa carico del racconto dell’altro, narrando solo ciò che non irrita la ferita, quella parte che può emergere senza scoprire troppo l’iceberg. Dopodiché, quando si sente la propria storia riferita da un altro non si può che provare commozione, e questo crea unioni molto forti tra le persone».

I vostri lavori sembrano davvero corali. Chi sono i vostri collaboratori?
M. M.: «Per quanto riguarda la drammaturgia, Annamaria Gozzi collabora con Bernardino e me soprattutto nella ricerca dei testi, quelli che chiamiamo i nostri alleati».
B.B.: «Quando cominciamo a scrivere un testo si guardiamo intorno, in cerca di suggestioni; mentre quando si tratta di mettere insieme quanto abbiamo sperimentato nel laboratorio attraverso i racconti incrociati, le improvvisazioni e i quadri, ossia passiamo al lavoro drammaturgico e registico in senso stretto, interveniamo Monica e io. Per quanto concerne la parte musicale, tradizionalmente come Teatro dell’Orsa, fin dal primo spettacolo, ossia da Cuori di terra (Premio Scenario per Ustica nel 2003, n.d.g.), abbiamo sempre lavorato con musicisti in scena. I quali hanno partecipato anche alla fase di stesura del testo, dialogando con noi. Antonella Talamonti, in particolare, fa un’opera di cesellatura sulla metrica del testo davvero importante. Del resto, il grande lavoro musicale sulla parola ci permette di mettere in scena spettacoli con venticinque attori dove, in effetti, di professionisti ne contiamo due».
M. M.: «Gaetano Nenna lavora con noi da dieci anni. Ha una formazione classica ed è compositore e direttore d’orchestra ancorché giovane. In Argonauti è stato presente a tutte le prove, anche rimanendo in silenzio e ascoltando. Con Antonella Talamonti collaboro fin dal 1997. Entrambe crediamo molto nel lavoro sulla musicalità della parola, sul parlato intonato. Faccio un esempio. Bernardino e io, magari, abbiamo un’intenzione registica, come un uso particolare del fiato, ma è Antonella che sviluppa l’idea e la rende nella pratica. In Argonauti, credo abbia sentito fortemente la forza utopica dell’attraversamento degli spazi, del corteo, e come mi ha sempre detto: “Questo è un teatro politico, poetico e sociale nel quale credo”. E non va dimenticato che abbiamo avuto accanto Michele Ferri, che non è specificamente uno scenografo, bensì un pittore e illustratore, il quale ha saputo trasfondere nello spettacolo la sua visione artistica».

Ultima domanda, politica. Riforma del Fus del 2014 e nuovo Codice dello spettacolo dal vivo. Cosa ne pensate e, soprattutto, di cosa avrebbe bisogno Teatro dell’Orsa per lavorare al meglio?
M. M.: «Noi siamo una generazione strana. Né under 35 ma neppure apparteniamo alla generazione precedente che, quando ha bussato, le hanno aperto le porte, usufruendo di fondi, riconoscimenti e spazi».
B. B.: «Io parto da questa considerazione: ci definiamo, fieramente, artisti indipendenti perché viviamo grazie al lavoro che produciamo. Il contributo pubblico nell’arte, d’altra parte, è fondamentale. Perché è vero che possiamo continuare a campare, tra virgolette, facendo i nostri progetti e vendendoli dove possibile, ma in questo modo non c’è crescita, non c’è scambio. Si ha bisogno di un contributo che permetta agli artisti di mettersi insieme per andare oltre i propri confini, allargando i progetti. Nella nostra esperienza, noi siamo riusciti a farlo soltanto quando è arrivato un contributo esterno, seppur minimo. Non si può prescindere da questo. Ovviamente il discorso è molto complesso, ma limitandoci al nostro punto di vista di Compagnia indipendente che produce non solamente spettacoli ma anche progetti culturali, che possono essere innestati su un territorio, abbiamo bisogno di un dialogo con tutte le realtà, dal Ministero alla Regione fino ai Comuni. Altrimenti è una battaglia persa. L’orizzonte su cui muoversi rimane relegato a delle capacità finanziarie e umane che sono troppo limitate».
M. M.: «L’utopia e la bellezza hanno bisogno di spazi e di sostanza. Io sento il bisogno dello sguardo dell’altro e di competenze altre. Per me, fare arte è essere inclusivi».