Il Roma Fringe Festival, giunto alla sua seconda edizione invernale, presenta nei locali de La Pelanda Monologo schizofrenico (due voci sul T.S.O.) di Melediterra Teatrodanza e Come sto di Batisfera.

Il primo è un racconto a due voci di un unico personaggio interpretato da Viola di Caprio. Voce narrante della propria storia è infatti Pina nel suo schizofrenico sdoppiamento tra passato e presente, «una bambina che, per sfortuna ed abbandono, finisce per essere presa in carico dalla Psichiatria» e trascorre la propria esistenza tra Case famiglia e Trattamenti Sanitari Obbligatori, fidanzati scrocconi (forse immaginari) e un indomabile anelito di libertà – psicologicamente trasfigurato in un incessante desiderio di fumare.

Di Caprio porta in scena le vicissitudini di una vita mai diventata veramente adulta e purtroppo incapace di prendersi cura di sé. «Un po’ per la somministrazione di psicofarmaci, un po’ per l’assenza di cura familiare» a Pina «le si blocca la crescita», ma è una donna, «nonostante tutto, gioiosa e ironica. Maledettamente lucida» e che, soprattutto, ama il mare e la sensazione di infinito che ne ricava in un mondo sempre più asfissiante nel non donarle quell’amore e quella normalità a cui l’aveva strappata in tenerissima età la violenza di un genitore diversamente doppio (padre suo e anche del figlio).

Di Pina, Di Caprio restituisce con generosità la passione e attraverso la patetica memoria di lei investe il pubblico con emozioni e sofferenze senza soluzione di continuità, ma, cercandone inutilmente la complicità con ammiccanti momenti di ironico sarcasmo, finisce per annaspare nel disperato tentativo di dare ritmo, complessità e profondità a una narrazione banalmente intrecciata con i diversi piani psicologici.

L’allestimento, che avrebbe necessitato di una recitazione ben più matura nel gestire le sfumature e l’inequilibrio della protagonista, viene così ad assumere una doppia inconsistenza: la prima, visiva, è quella di una densità scenografica mai autenticamente metaforica perché colma di soluzioni inutili e didascaliche (dalla doppia scritta «Sto bene» ai cambi di costume, dai quattro vasi alle tre sigarette, dalle due sedie all’unico ombrellino); la seconda, quella verbale, è invece propria di una confusione drammaturgica sopra i limiti di guardia nel provare a individuare la doppiezza psicologica del personaggio attraverso un incoerente flusso di coscienza e che, di fatto, si riduce alla semplice inflessione dialettale

A rendere insopportabile uno scenario teatrale di per sé già desolante, è però la leggerezza, se non proprio la superficialità, con cui Monologo schizofrenico (due voci sul T.S.O.) sposa una visione romantica della follia, mette in un unico calderone dal disturbo bipolare alla depressione, dall’aspirina al Prozac ed enuclea esplicitamente una posizione – vecchia almeno due secoli – secondo la quale l’alterazione psichica sarebbe la semplice conseguenza di incomprensione e/o la mancanza di affetto.

Di Caprio inciampa nell’esasperazione di alcuni luoghi comuni che, pur drammaticamente veri in alcuni contesti, proprio per essere messi in crisi avrebbero avuto bisogno di non essere generalizzati in un atteggiamento manicheo che interpreta il degente psichico quale generica vittima di un non ben identificato potere coercitivo e gli operatori sanitari quali spietati carnefici.

A ricordarci che l’abuso e il malfunzionamento del TSO possano costituire zone d’ombra non serviva l’operazione di Di Caprio, la quale, come se non bastasse, si dimostra del tutto inefficace nell’aggredire in maniera lirica o documentata problematiche reali quali la spersonalizzazione e l’alienazione del paziente, il trauma dovuto a pesanti terapie psicofarmacologiche, la stigmatizzazione e la mortificazione pubblica di individui che pure si trovano in uno stato di allucinazione, delirio, confusione e aggressività e nei confronti dei quali la rete di protezione familiare si dimostra inadeguata perché priva non di amore, ma delle necessarie competenze professionali.

Nessun riferimento alla facile identificazione tra disturbo mentale e pericolosità, comune nel caso di persone sole, dunque all’assenza di un servizio di salute mentale e di maestranze coerenti con le recenti tendenze della psichiatria contemporanea. Linee che, almeno per principio, riconoscono nella delimitazione dell’indispensabile trattamento farmacologico, nella riduzione degli aspetti sedativo-repressivi e nella riabilitazione funzionale i cardini di un intervento di recupero sociale e personale del soggetto.

Nei confronti di un quadro così delicato, lo spettacolo paga il modo in cui non argomenta la definizione tout court del TSO «come il carcere ma senza avvocati che si sbracciano per la tua causa […] ricovero coatto, a seguito del quale, mai nessuno è guarito; qualcuno è morto; qualcuno ha iniziato a soffrire di disturbi psichici» e finisce maldestramente per scimmiottare il virtuoso riflesso dell’antipsichiatria negli anni 60/70 del secolo scorso, quando, per esempio, Franco Basaglia, Michel Foucault e altri contestavano l’invadenza del dispositivo psichiatrico quale strumento di controllo delle devianze dalle norme socio-culturali o la classificazione dell’omosessualità nel novero delle malattie mentali, un quadro storico e culturale di cui l’autrice mostra di essere del tutto miope.

Meno pretenzioso, ma meglio costruito, interpretato e ideato, Come sto con Valentina Fadda e Angelo Trofa (quest’ultimo regista e drammaturgo) affonda le proprie ideali radici nel tentativo di Ionesco di costruire una drammaturgia su frasi, dialoghi e atti ripetuti meccanicamente e istericamente.

«Una gentilezza di circostanza, una domanda affettuosa o semplicemente una mera formalità che lascia aperto un problema profondo: Come sto?»: smontando il linguaggio attorno alla dialettica tra la domanda e la relativa risposta, il duo sardo propone un testo che quasi mai struttura la possibilità di un autentico dialogo, ma solo la coesistenza e la sedimentazione di monologhi.

Immersa in una scena dominata – senza un motivo apparente – dall’alternanza di rosso e bianco come una surrealtà bidimensionale e sganciata dalla condizione di significare qualcosa, la parola recupera il desiderio ioneschiano di una comunicazione regredita a non-sense, a opinioni che si condividono in massa e a generalizzazioni nelle quali e dalle quali l’individuo non è mai autenticamente coinvolto. Per questo il personaggio del cartello di successo potrà affermare di esserlo: perché potrà omologare il proprio linguaggio verbale, non verbale e paraverbale a quello di un immaginario sovrastante e annichilente.

L’intenzione è calzante e lo spettacolo, farcito di alcune soluzione ingegnose, sposa l’idea secondo la quale le dinamiche sociali e il pensiero individuale possano essere se non decostruite almeno riconosciute nel modo in cui specifiche strutture linguistiche vengono reiterate senza alcun investimento emotivo o intellettuale in ciò che è stato già detto da tutti gli altri.

Il gioco regge su uno schema alla Zelig di sketch rapidi e brillanti e su ritmi sostenuti ma, privo di particolari virtù istrioniche o testuali, Come sto si posiziona degnamente solo sul piacevole piano del divertissement, meno su quello auspicato di parlare «della confusione umana, del senso di disagio nel ritrovarsi e capirsi, nel fluire di eventi e sentimenti».

Gli spettacolo sono andati in scena all’interno del Roma Fringe Festival
La Pelanda | Mattatoio
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma
7 gennaio 2020, ore 20 e 21

Monologo schizofrenico (due voci sul T.S.O.)
Melediterra Teatrodanza, proveniente da Salerno
di e con Viola Di Caprio

Come sto
Batisfera, proveniente da Cagliari
regia e drammaturgia Angelo Trofa
con Valentina Fadda e Angelo Trofa
scenografia Sabrina Cuccu
costumi Sabrina Cuccu e Adriana Geraldo
attrezzeria Simona Passi
foto Sabrina Murru
co-produzione Akroama – Sardegna Teatro