Pasolini secondo Celestini

Fra i titoli più attesi e pubblicizzati del Romaeuropa Festival, Museo Pasolini di Ascanio Celestini mescola la commemorazione più classica ai giochi narrativi più inaspettati.

Che all’approssimarsi del 2022, e quindi del centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, dobbiamo prepararci a un gran numero di spettacoli, rassegne e altre iniziative dedicate alla memoria dell’intellettuale emiliano, in una rapida successione che non sempre consentirà di distinguere gli omaggi sinceri dalle opere di sciacallaggio culturale, è fuori dubbio; che Ascanio Celestini fosse uno dei performer teatrali più papabili e forse più adatti a portare in scena una riflessione su Pasolini stava pienamente nelle cose. Ciononostante, questo Museo Pasolini appena andato in scena al Romaeuropa Festival è qualcosa di diverso da quello che ci si poteva legittimamente aspettare.

Come suggerisce già il titolo, Museo Pasolini vuole presentarsi come una sorta di museo della memoria attiva, in cui però «il numero di parole è eccessivamente superiore agli oggetti esposti». Il racconto che viene fatto nello spettacolo, come Celestini stesso ricapitola alla fine, sembra voler seguire l’esposizione verbale di cinque diversi oggetti perduti bene o male riconducibili a Pasolini, in maniera però mai schematica. Il primo di questi oggetti è la poesia andata smarrita che il piccolo Pier Paolo scrisse nel 1929, all’età di sette anni, dopo che la madre Susanna ne aveva scritta una per lui, facendogli capire che la poesia è qualcosa che può essere anche “fatta in casa”; il secondo oggetto perduto è idealmente tutta Casarsa, il paesino friulano da dove proveniva la madre del poeta, e a cui lui fu sempre legatissimo. Il terzo è invece, con più amarezza, «l’innocenza del Partito Comunista Italiano», che Pasolini disse essere stata «piegata come una bandiera e messa nel cassetto» dopo essere stato espulso nel 1949 a seguito della sua prima accusa per atti osceni in luogo pubblico. Il quarto oggetto è la borsa similpelle in cui, lo stesso giorno dell’attentato di Piazza Fontana a Milano, venne trovata una bomba inesplosa nei pressi di piazza della Scala; nonostante l’importanza della prova, tanto la bomba quanto la borsa vennero fatte esplodere quella sera stessa – da cui il pasoliniano «io so, ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi». L’ultimo oggetto smarrito raccolto nel Museo è, prevedibilmente, il corpo stesso del poeta, fatto a pezzi all’Idroscalo di Ostia.

Questa però non è la struttura dello spettacolo: è la sua sottostruttura. La struttura è un altro paio di maniche, ed è qui che c’è l’elemento di sorpresa di Museo Pasolini. Per i primi quaranta minuti, forse un po’ troppi, lo spettacolo sembra essere una ricapitolazione abbastanza canonica dei primi anni di vita di Pasolini, dalla storia della sua famiglia allo spostamento a Roma, con alcuni détour interessanti sull’Italia negli anni del fascismo e sul triste destino della brigata Osoppo, a cui aveva aderito anche il fratello Guido Pasolini. Improvvisamente però lo spettacolo cambia registro e diventa una sorta di grandiosa fantasia sul mondo popolare romano. La figura di Pasolini – chiamato sempre poeta per praticamente tutta la durata dello spettacolo – resta, ma perde completamente la sua centralità, diventando magari un interlocutore in tram delle altre voci narranti.

La prima impressione che si trae è che, dopo un’esposizione pedante dei primi tre decenni di vita del poeta all’arrivo a Roma (lo spettacolo che ci si potrebbe aspettare su Pasolini, ma fin troppo istituzionale per Celestini), l’attore voglia spostarsi dalla biografia all’immaginario pasoliniano, dando voce a personaggi simili a quelli dei suoi film e soprattutto dei suoi primi romanzi. In realtà, l’operazione è ancora più fine. A differenza di quello che faceva Abel Ferrara nel suo biopic datato 2014, in cui si sforzava di mettere in scena fedelmente soprattutto le visioni del «Pasolini postumo» e irrealizzato, quello di Petrolio e del Porno-Teo-Kolossal, nella seconda parte di Museo Pasolini Celestini sembra operare una contaminazione: i personaggi proletari sono (anche) pasoliniani, come profondamente pasoliniano è il loro vitalismo; ma il taglio con cui sono narrate le vicende è quell’umorismo aspro, popolare e colto assieme e a tratti un po’ caustico che permea tanto i dialoghi di questi personaggi immaginari, dei vari Sandroni e Boccagialla – quest’umorismo è tipicamente celestiniano, ammesso che l’aggettivo sia già stato inaugurato.

Nella penultima scena dello spettacolo, si entra in una dimensione quasi da teatro dell’assurdo, in una sorta di Limbo dove è rimasta viva la memoria delle ultime parole su cui spirava l’Accatone di Franco Citti nell’omonimo film d’esordio di P.P.P. – «ah! mo’ sto bene». Nell’ultimissima scena Celestini ritrova il carattere espositivo dell’inizio, e conclude la narrazione con la descrizione del cadavere di Pasolini, ucciso «il 2 novembre 1975, cinquantatreesimo anno dell’era fascista». La permanenza del fascismo in Italia, assieme alla simmetrica tradizione anticomunista della politica italiana del dopoguerra filoamericana, è un’altra delle direttrici di fondo dello spettacolo, certo nettamente più composito ed eterogeneo rispetto ad altri precedenti testi di Celestini.

Quello di Ascanio Celestini era e resta un teatro di parola: monologante, chiaro, senza peli sulla lingua anche a costo di restare didascalico, con alcune contro-interpretazioni della storia ufficiale d’Italia che in uno spettacolo ovviamente possono trovare spazio, ma che andrebbero integrate con delle vere e proprie opere di storiografia. Al tempo stesso, evitando di fare un santino della figura di P.P.P., questo Museo Pasolini, di qui a un anno quando le celebrazioni per il centenario dalla nascita saranno più o meno finite, resterà sicuramente come una delle operazioni più pulite e meno banalizzanti dedicate alla memoria del regista del Vangelo secondo Matteo e di Teorema. C’è poi un’ultima constatazione, forse banale, da fare. A sentire Celestini all’Auditorium erano presenti circa un migliaio di persone: moltiplicate per due serate, si sfiorano i duemila spettatori, in un momento in cui la “crisi del teatro” è un po’ sulla bocca di tutti. Forse Museo Pasolini non ha quei tratti misterici e rivelativi che hanno avuto altri, grandiosi spettacoli dell’edizione di quest’anno del RomaEuropa come De Living di NT Gent o The Garden dei Fanny & Alexander, ma come sempre Celestini, sospeso tra il moderno teatro di narrazione e una più antica e nascosta tradizione dei cantastorie, ha saputo compiere una coinvolgente opera di comunicazione civile.

Lo spettacolo continua
Auditorium Parco della Musica / Sala Sinopoli
Via Pietro de Coubertin, 30, Roma
fino al 2 novembre
ore 21

Museo Pasolini
di e con Ascanio Celestini
prodotto da Mismaonda, Fabrica, Teatro Carcano