Una Rumorosa Solitudine – De Rivolutionibus – A Ritrovar le Storie

teatro-san-girolamo-luccaA Lucca, si conclude la quarta edizione del Festival I Teatri del Sacro. Piccole osservazioni sugli ultimi tre spettacoli.

E siamo all’ultimo giorno.
Domenica 14 giugno, la chiusura del Festival. Anche per quest’anno, I Teatri del Sacro cessa la sua omelia. Ecco le ultime sillabe, l’ultima profusione del discorso devoto.
Ore 17.30. Il Real Collegio si volta indietro, ricorda, torna alla gravità dei tempi trascorsi. Il monastero che è stato, prima che il mondo si pitturasse il viso, torna. Si attraversa il chiostro echeggiante, fino alla sala 1.
Una Rumorosa Solitudine, della Compagnia Donati-Olesen, si apre su di un terreno ingombro di carta. L’uomo, che la pressa da decadi nella stessa macchina fedele, spartisce col lavoro la propria vita dimezzata. Da un lato, l’esistenza alienata, l’orrore di porre un passo avanti all’altro in una ripetizione trentennale; dall’altro, il flusso persistente del pensiero, quel pensiero che s’imprime sulle pagine da pressare. Adibito a zona dissociata, dove la vita a seconda dei casi s’interrompe o, paradossalmente, ha un punto d’inizio, il magazzino si colora di visioni e ricordi. Memorie della donna perduta, memorie della Grande guerra. Qui si sono pressati perfino, nella cara macchina, persino Hitler coi suoi opuscoli perfetti. Ma tutto ciò trascolora nell’esistenza del nostro – come l’olio sull’acqua. Lui rimane imperturbato, rimane lucido, rimane assoluto. Pascola i suoi libri, edifica i suoi altari di carta, che poi comprime. L’osmosi con la macchina si totalizza, la compressione diventa assimilazione. Al di fuori del suo magazzino, l’uomo è una bambola decontestualizzata.
Una Rumorosa Solitudine è il parto di una clausura, un chiostro nel chiostro, dove alla mistica possessione si sostituisce il deliquio della conoscenza. Non annullamento, bensì saturazione. E il dramma dell’individuo, l’incapacità di adeguarsi al tempo, al luogo, al fatto, lo estrania progressivamente. La visione dei suoi totem, Gesù e Lao Tze, contrapposti come il futuro che arriva e il passato che rimane, perennemente in bilico tra loro, incarna l’ambivalenza della sua esistenza. Ogni evento reale perfora la trama con la crudeltà di una pugnalata. Non c’è soluzione. Bisogna fagocitarsi.
Recitata completamente in monologo (complimenti all’eroico Amandio Pinheiro) e accompagnata dal contrabbasso di Eugenia Barone, l’opera narra la turbolenza psichica senza mai privarsi di una cruda lucidità.
Si conclude poco prima delle 18.30. Di seguito, De Rivolutionibus: sulla miseria dell’essere umano.
Incentrato sul gioco delle Operette Morali leopardiane, il progetto della Compagnia Carullo-Minasi rappresenta in maniera pressoché fedelissima Il Copernico, “opera infelice e perciò morale” e Galantuomo e Mondo, “opera immorale e perciò felice”. Delle pochissime modifiche apportate, la più evidente è senz’altro la femminilizzazione della figura del Mondo, maschile nell’operetta originaria. Per il resto, ci viene presentata, dopo lungo tempo speso su opere concettuali, astratte o più semplicemente visionarie, una produzione di stampo più tradizionale – alle quali forse occorrerebbe riabituarsi. O forse no. C’è un tempo per ogni cosa, un target per ogni cosa. Esprimere giudizi in merito a quale debba essere la corrente “giusta” non ci compete. Basti sapere che l’amaro sarcasmo del Leopardi non perde minimamente, è casomai amplificato da una recitazione spumeggiante. C’è da interrogarsi al contrario sulla scelta, tra tutte le operette, proprio delle succitate. De Revolutionibus, come il titolo afferma, pare suggerire una linea di sviluppo al genere umano, linea che se dapprima suggerisce la sofferenza generata dalla rivelazione del vero (un’umanità che deve accettare di non essere centro dell’universo) e, quindi, un’auspicabile maturazione (“…si contenteranno di essere quello che sono” [Il Copernico]), si risolve nella seconda parte dello spettacolo in un’involuzione. Resosi conto della propria piccolezza, l’uomo abbandona ciò che è giusto in un lieto, scellerato suicidio.
Particolarmente interessante, la soluzione della messinscena incentrata su un carrozzone – che, se da un lato più prosaico, potrebbe far pensare a quello metaforico cantato da Renato Zero (peraltro abbastanza affine, nel suo andamento che ricorda la ciclicità delle catene di montaggio, alla natura ingrata descritta dal recanatese), dall’altro crea quel contesto di parabola diffusiva, da declamare per le nostre strade.
Per il terzo spettacolo occorre uno spostamento. Siamo alla Chiesa di San Giovanni, sconsacrata, spoglia. Un piastrellato rosso la trasforma in terra atemporale.
Alle 21.00 va in scena A Ritrovar le Storie, del Teatro dell’Orsa. Originato da un laboratorio di incontro e narrazione, l’opera trae spunto dall’omonimo libro di Gozzi, Morini e Murgia, sforzandosi di applicarlo alla crisi sociale che maggiormente ci riguarda negli ultimi tempi, ovvero il fenomeno immigrazione. Il risultato merita una discussione.
Ora, A Ritrovar le Storie si presenta come un invito a far scaturire dallo spazio della singola parola il racconto di sé. A questo proposito il libro reca all’interno una tavola da Gioco dell’oca, nella quale per ogni casella corrisponde un concetto da sviluppare. Preso in sé offre al lettore/interattore un eccellente spunto comunicativo le cui radici sarebbero recuperabili persino nel diletto dei “cadaveri squisiti” surrealisti. Ma qui si parla di teatro. Teatro e immigrazione. E allora, si ha motivo di riconoscere nel progetto un tentativo di unificazione dell’uomo nella sua multietnicità, mediante il lógos, la parola, l’unica forma comunicativa umana capace di suscitare memorie non troppo dissimili tra loro. Dalla visione del fuoco la leggenda di Sant’Antonio; dalla parola Morte un susseguirsi di miti e considerazioni. A lasciarci perplessi è casomai l’utilizzo che è stato fatto dei giovani nigeriani che contornano lo spettacolo, cui esso è intrinsecamente dedicato. Trattandosi di un tema multiculturale ci saremmo aspettati uno spazio maggiore concesso al mondo di provenienza dei ragazzi, un viaggio immersivo, sì nelle storie, ma nelle loro storie. Parlarci di immigrazione e sommergerci in contemporanea di favole belle, ma già proprie della nostra cultura, non è ciò che avremmo immaginato. Ancora meno vedere i ragazzi limitati alla ripetizione e sillabazione di parole già pronunciate, con l’effetto cassa di risonanza. L’utilizzo della lingua inglese, sebbene aiuti a raggiungere l’obiettivo della multietnicità, non è comunque il tanto che avremmo voluto. Siamo al corrente dell’importanza che in questa manifestazione, così come nel libro, ha la parola; allo stesso modo siamo consci del fatto che i giovani provengono da un laboratorio. Proprio per questo motivo, avendo tra l’altro individuato di frequente nelle opere de I Teatri del Sacro un ricorso al tableau vivant, avremmo immaginato un utilizzo più accentuato della corporeità e dello stimolo sensoriale. Di grande impatto, per esempio, quella che abbiamo decifrato come allusione alla crocefissione, nella prima metà dell’opera, o la pantomima della traversata del Mediterraneo sulle note di Michael Nyman.
In definitiva uno spettacolo con una buona idea di base, coerente con il libro, anche struggente (e su questo non si hanno dubbi: l’uomo accanto a noi piangeva a dirotto), ma che avrebbe forse bisogno di un’ulteriore raffinatura a livello registico.
Fine dell’omelia. I Teatri del Sacro tacciono. Possiamo tornare alle realtà profane.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del
Festival I Teatri del Sacro:
domenica 14 giugno, ore 17.00 e 19.30 (replica)
Real Collegio – Sala 1
Compagnia Donati-Olesen presenta:
Una Rumorosa Solitudine
di Jacob Olesen e Amandio Pinheiro
liberamente tratto da Una Solitudine Troppo Rumorosa, di Bohumil Hrabal
regia Jacob Olesen
con Amandio Pinheiro
contrabbasso Eugenia Barone
musiche di Pino Pecorelli
testi delle canzoni Alessandro Hellmann

sabato 13 giugno, ore 19.30, e domenica 14, ore 18.30 (replica)
Real Collegio – Sala 2
Compagnia Carullo-Minasi presenta:
De Revolutionibus
Sulla miseria del genere umano
da Il Copernico e Galantuomo e Mondo di Giacomo Leopardi
diretto e interpretato da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi
disegno luci di Roberto Bonaventura
scene e costumi di Cinzia Muscolino
scenografia di Piero Botto
assistenza alla regia di Veronica Zito
ringraziamenti a Giovanna La Maestra, Angelo Tripodo e Simone Carullo

domenica 14 giugno, ore 21.00
Chiesa di San Girolamo
Compagnia del Teatro dell’Orsa presenta:
A Ritrovar le Storie
di Monica Morini, Bernardino Bonzani e Annamaria Gozzi
spettacolo ispirato al libro A Ritrovar le Storie, di A. Gozzi, M. Morini, D. Murgia
con Monica Morini, Bernardino Bonzani, Franco Tanzi e il contributo dei partecipanti all’atelier
collaborazione alle scene di Franco Tanzi
collaborazione tecnica di Lucia Manghi