La Persia nella terra del Palio

Una panoramica del Festival dedicato al Paese mediorientale, che si è tenuto a Siena nei mesi di marzo e aprile, attraverso i racconti di Mohsen Sariaslani – anima della manifestazione.

Dopo tutto questo, Siena ci parrà più angusta.
Non sarà la prima volta. Questa è una città gioiello, avvinta ai colli del Chianti come i monili d’oro a quello della Sposa biblica. In pochi si staccano da quel seno, che riecheggia nella stessa radice del nome – Siena, seno – e avvolge gli abitanti nell’abbraccio del Campo.
Ma adesso è diverso. La città ha allargato le braccia e l’aria vi è passata attraverso. Certo, più che il Campo poté il Campus, nella vecchia Siena: dobbiamo all’Università gran parte delle iniziative promosse. Il progetto Europe Direct porta avanti Nice to meet you dal 2013, sotto il segno della concordia e conoscenza reciproca, dedicando ogni anno a una specifica cultura, con un Cartellone di appuntamenti che si protrae per diverse settimane. L’intento è un approccio che percorra il Paese selezionato dai principali punti di vista, affondando prima nella sua storia, poi nelle sue declinazioni artistiche e tradizionali. Usa, Messico, India, Albania, Camerun gli Stati fin qui proposti. E quest’anno è la volta dell’Iran.
Anzi: questo capodanno appartiene all’Iran, dato che si è festeggiato il Nowruz, il “nuovo giorno” – che cade in primavera, ed è tradizione vecchia di millenni, sopravvissuta alle conquiste, a tirannidi e rivoluzioni religiose, sopravvivendo col suo carico ingente ma lieve da portare, come tutto ciò che non pretende di appellarsi a dogmi, politiche o divinità, ma sceglie di aderire ai cicli del cosmo, accomunando tutti i popoli.
Ma entriamo nel merito della manifestazione incontrando Mohsen Sariaslani, parte attiva in ogni evento del Cartellone, che sintetizza al meglio lo spirito del Festival: l’unione di due culture nel segno del rispetto reciproco.
Alle prime domande sa già da dove partire. Il suo discorso si dirama da un libro per ragazzi, nero, disegnato a tratto elementare. Il Pesciolino Nero, spiega, è stato il motore della sua rivolta personale. L’opera più nota di Samad Behrangi, insegnante iraniano e folklorista, dipinge con tinte dirette l’epopea di un piccolo pesce affetto da quella che, in una condizione di regime, corrisponde alla peggiore colpa: la curiosità. Inimicandosi l’intera popolazione del ruscello – e successivamente del fiume – l’esserino fronteggia gli avversari che si pongono tra lui e il mare, coronando l’esodo col martirio e aprendo la strada al fiorire di una nuova rivolta: quella di un pesciolino rosso.
«Questo libro era vietatissimo in Iran», racconta Mohsen. «Behrangi aveva un forte legame con l’ambiente intellettuale di sinistra, nonché con la parte più disagiata della popolazione. Riusciva a capire esigenze, desideri e fantasie dei suoi bambini, mischiandoli con quelli di questi intellettuali. Un giorno il pesciolino si rende conto che il ruscello in cui vive è stretto e limitato. E dice: “al di là di questo che cosa esiste?”. E in situazioni particolari una domanda del genere è di per sé pericolosa».
La storia del Paese vista dai testi scolastici occidentali pare facilmente delineabile. All’Iran, il più delle volte, nemmeno si accenna. È molto più pratico ridurre quelle terre a generiche situazioni mediorientali, o a dinamiche postcoloniali. Come molte culture del Medio Oriente, anche la sua è stata investita da un progresso improvviso e traumatico, contornato dal conflitto tra i radicalismi interni e la speculazione delle potenze occidentali, sempre più assetate di petrolio. Terra di contesa tra la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica, la Persia passa dal colonialismo alla dittatura militare dei Pahlavī, che lo storico Ervand Abrahmian paragonerà “ai Tudor, ai Borbone, agli Asburgo del XVI secolo, monarchi il cui obiettivo era stato la creazione di Stati centralizzati” (Storia dell’Iran, 2008); “Non è una cosa che qualcun altro possa mettermi sulla testa”, sembra aver detto Reza Khan primo Pahlavī, imitando l’atto iconico dell’autoincoronazione, già appartenuto a Napoleone. Risale al regno del figlio Muhammad, fautore della traumatica Rivoluzione Bianca, la nascita della Savak, ossia i servizi segreti, nutriti da una rete d’informatori fittissima e in azione a partire dal 1957.
«Ero un ragazzino curioso», continua Mohsen. «Accanto alla mia scuola c’era il Tribunale. «Perché piangi?», chiedevo a quelli con le manette. E questo mio insegnante, visto che ero “strano”, mi disse: «Ti lascio questo libro, ma tu leggilo di nascosto da tutti; quando me lo riporti mi dici dove lo hai lasciato». A quei tempi, a seconda di quel che facevi potevi finire in carcere, ti torturavano. Dopo due o tre anni sono arrivate le manifestazioni contro lo Shah. Io vi partecipavo attivamente».
Col mantenimento della dignità regale in un’epoca di crescente democratizzazione, “lo Shah sedeva su un vulcano” (Abrahmian). Quanto alla Rivoluzione Bianca, intrapresa per incrementare drasticamente la produzione tecnico-economica, aveva ottenuto il risultato di impoverire la classe terriera, provocando emigrazioni di massa verso le fabbriche in città.
«All’inizio nessuno sapeva niente di Khomeini: non circolava nessuna immagine, la necessità di ribellarsi allo status quo non riguardava la religione. Era un movimento di sinistra – falce e martello. Gli attivisti erano in gran parte arrestati dallo Shah: attraverso il loro sangue svelavano il suo volto più autentico alla gente», continua Sariaslani. «Khomeini era la persona più adatta, anche dal punto di vista delle nazioni occidentali, a dirigere la protesta: era un Imam, aveva una solida influenza religiosa e, soprattutto, era contrario allo Shah, ma per i motivi sbagliati (ossia, l’approccio liberale di Pahlavī alla sharīʿa, n.d.a.). Si è soliti dire che abbia “rubato la Rivoluzione del ‘79”. I veri oppositori non potevano contestarlo; finché c’era libertà, l’hanno sfruttata e Khomeini ha cominciato ad allarmarsi. Ha tratto vantaggio dalla guerra contro l’Iraq per coprire gli arresti e i massacri interni; anch’io fui tra gli arrestati». E qui preferisce comprensibilmente non continuare. «Dopo, sono venuto in Italia».
Perché scrivere questo? Perché non limitarsi al consueto articolo meravigliato, dal sentore turistico, che spazi sui risvolti estetici del Cartellone senza soffiare sulla doratura? Il motivo è semplice: è tempo di guardare in volto il Medio Oriente. Quello vero, strutturale. Non gli arabeschi del trucco, né le cicatrici della guerra. È tempo di sollevare il velo dell’esotismo, così sognante e illusorio, disvelandone la componente umana: «La cultura è il vaccino. Dove c’è la cultura, c’è la democrazia. Da dieci anni ho fatto del mio negozio uno spazio dedicato alle mostre fotografiche. E in questi dieci anni ho sempre festeggiato coi ragazzi il Capodanno iraniano.»
E torniamo al tema principale, il Festival senese.
«Due anni fa l’Università di Siena mi chiama per collaborare. Volevano rappresentare l’Iran del regime, con bandiere e ambasciatore, idea che chiaramente non condividevo e per cui mi sono tirato fuori. Quest’anno hanno accettato la proposta di qualcosa di diverso, anche se gran parte dell’organizzazione è stata portata avanti da me. Si sono dimostrati molto cordiali, aperti. Se il Paese ospitante crea un’atmosfera di paura non si può che generare ignoranza. Quando è buio, quando non vedo, anche il rumore più innocuo mi può spaventare». Il faro acceso da questo Festival spazia dal cinema alla poesia, dalla musica folk alla letteratura di viaggio. Non è mancato neppure il pranzo tradizionale, consumato a San Lorenzo a Merse – che pare scolpita nei sassi e offre scorci incantevoli delle colline senesi. Tra riso basmati e profonde note di zafferano, un’interessante usanza iraniana ha catturato la nostra attenzione: «Viene dall’antica Persia. Gli zarathustriani avevano un forte rapporto con la natura, come i buddhisti. Con il Nowruz raggruppavano sette simboli su un tavolo: sette cose vivaci, che cominciassero con la lettera sin. Prima dell’introduzione dell’Islam, c’era anche il vino, poi sostituito con l’aceto. Ma ci sono tante varianti. Il sette è un numero sacro, magico per molte culture». Orzo germogliato, mele rosse, frutti di oleastro: elementi di rinascita che congiungono tutte le etnie di questa vasta nazione nell’imprescindibile vincolo della natura. E un libro sacro, che può essere il Corano, o la poesia: più volte sarà ribadito nel corso del Festival quanto intenso sia il rapporto di questo popolo con l’arte poetica. Su quasi tutti i tavoli di Nowruz troneggia una copia del Canzoniere di Ḥāfeẓ, noto come “Interprete dei Misteri” e consultato come un oracolo in risposta ai propri interrogativi.
È questo l’Iran di cui parleremo, fedele alle proprie radici nonostante l’antica conquista araba. Insiste molto, Mohsen, quando dichiara che l’antica Persia è stata quasi l’unica preda dell’Impero islamico ad aver mantenuto la propria integrità culturale, che va dalla lingua al calendario, fino alla concretezza di quel tavolo imbandito. E proprio di questa integrità ci occuperemo, incarnata dalla poesia di Forugh Farrokhzad e dai brani rievocati dal gruppo di Pejman Tadayo; dall’occhio del viaggiatore nostrano, che si esprime nella fotografia (Andrea Fanetti, Luciano Cardonati e Alessandro Posani) e nella narrativa (Angelo Zinna); parleremo di un’integrazione che parte dal basso, dal cibo, dalla musica e dalle storie, coinvolgendo gli studenti iraniani in Italia e un’Associazione culturale come la Corte dei Miracoli che, oltre a ospitare L’Iran e le Poesie, ha dedicato tre appuntamenti alla trilogia di Abbas Kiarostami. Ben poco parleremo del primo evento in Cartellone, L’Iran e lo Sport, il più pubblicizzato e meglio finanziato a livello di contributi universitari per la presenza di Saeid Marouf, Capitano della nazionale iraniana di pallavolo, e del vice-allenatore Juan Manuel Cichello – un incontro che ha entusiasmato ammiratori di tutte le età, ma che certamente non ha avuto la rilevanza culturale del resto del Festival che, dopo L’Iran e lo Sport, spiace registrare abbia ricevuto minor sostegno e visibilità.
In un’Italia precipitata nell’intolleranza, dove la censura torna a minacciare la libera espressione è quanto mai importante che i porti – fisici e mentali – siano aperti, che vi sia dialogo, e il fiume possa affluire al mare. E se Behrangi, a differenza del suo Pesciolino Nero, fu trovato morto nel fiume Aras e non poté vederne la foce, è sull’esempio suo e di altri intellettuali che fioriscono iniziative come questa. Perché “non importa se un giorno non vivrò più. Quello che importa sono le tracce che avrò lasciato nella vita degli altri” (S. Behrangi).
A presto con la seconda parte del nostro viaggio nell’Iran di ieri e di oggi.