L’associazione culturale Teatri&culture presenta, al Teatro dell’Orologio di Roma, la pièce Non Rubare, da un testo di Irene Canale per la regia di Carlo Dilonardo.

La funzione storica del teatro è sempre stata quella di mostrare nascondendo, di occultare illuminando, di narrare fingendo (ricordiamo il monito di Eduardo De Filippo ne L’arte della commedia: “Il teatro è la suprema verità e sarà sempre l’estrema finzione”), palesare le contraddizioni del vivere, le gioie e i dolori dell’uomo, nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, in un mondo ostinatamente schiavo della sua avidità.

In una sorta di non-luogo, quattro fratelli poveri, Già (Danilo Vanella), Giù (Francesco Vellei), Tutù (Chiara Saiella) e Tatà (Enrica Nizi), quasi fossero anonime creature “increate” e, in un certo senso, inanimate, sbarcano il lunario tentando piccoli furti, tra ricettazione e setaccio di discariche, sperando un giorno di divenire ladri professionisti e puntare con ciò a bottini più elevati che possano risolvere in un colpo solo la loro triste condizione.

I contrasti sono all’ordine del giorno. È impossibile auspicare un po’ di pace e serenità familiare, in quanto una famiglia vera e propria non c’è, dato che il fratellino più piccolo, Giù, è in realtà nato da una relazione incestuosa tra Già e Tutù. Gli altri, inoltre, sembrano autentici figli di nessuno, di un padre assente e mai conosciuto e di una madre uccisa per disperazione – o forse con la speranza di ottenere una qualche notorietà sui giornali per uscire da questo stato di brutale convivenza, di gelatinosa e disarmante quotidianità fatta di allucinazioni frustranti e impossibilità di progettazione di una via di fuga, per sognare una vita migliore.

Un non-luogo che rappresenta dunque non solo il ghetto sociale (poco o nulla narrato dai grandi media) in cui rinchiudere e far raggrumare l’indigenza, il disagio sociale, l’assoluta mancanza di prospettive oltre che l’abitudine ad accettare l’esistente come fosse un destino infausto, un dato di fatto immutabile, ma una sorta di buco nero psichico, di rimozione forzata delle circostanze in cui è venuto a maturare il loro declino totalizzante e senza scampo, di gorgo profondo in cui le coscienze corporali dei protagonisti cadono vittime dei loro stessi incubi, nell’incapacità di affrontare le proprie responsabilità e impegnarsi a cambiare una situazione divenuta ormai insostenibile.

Durante l’ennesimo scontro disperato, Giò (Bernardo Casertano) irrompe in baracca per fare luce sulla misteriosa scomparsa del bracciale della sua ragazza Ninì (Irene Canale), molto più ricca e sofisticata, con cui era andato a vivere per sfuggire a un’esistenza fatta di stenti e privazioni insopportabili. Nel tentativo di fare giustizia, Giò si rende conto di quanto falso e interessato fosse il suo amore per Ninì, di come entrambi si siano usati per dare un senso – seppur precario e formale – alle proprie vuote e grigie esistenze. Giò comprende che la sua vera casa è la baracca e che i suoi veri affetti risiedono – nel bene e nel male – nel tanfo barbarico di una dimensione sempre più disumana, dalla quale può viceversa rinascere il suo bisogno di riscatto.

Nell’essenzialità opprimente e nello squallore “consumistico” di una civiltà incivile, di una realtà irreale (abitata da chi sopravvive con gli scarti dei prodotti consumati da una manipolazione superficiale ignara delle conseguenze e istericamente portata all’accumulazione del superfluo come status symbol), si riflette l’estrema dilatazione gestuale e verbale dei protagonisti, attraverso la repentina attivazione di un gioco al massacro che coinvolge non solo la loro debole terrestrità ma inficia soprattutto la precarietà spaziale di cui hanno bisogno per “uscir fuori” dal loro stato di anonimato oltre che di anonimità.

Tutta la narrazione, così come la recitazione, il gioco delle attese e dei rimpianti, delle voci sussurrate, dei desideri soffocati, delle colpe indicibili e dei martiri annunciati, non è altro che il tentativo disperato di illuminare l’oscurità che ci circonda e che tentiamo – invano – di nascondere sotto il tappeto o, ciò che è peggio, di “normalizzare” dentro di noi, facendo crescere a dismisura la nostra vile ottusità connessa al nostro abituale egoismo.

Lo spettacolo continua:
Teatro dell’Orologio – Sala Artaud
via de’ Filippini 17/a – Roma
fino a domenica 30 maggio
orari: da martedì a sabato ore 21.00 – domenica ore 18.00

Non rubare
di Irene Canale
con Carmine Balducci, Francesco Vellei, Chiara Saiella, Enrica Nizi, Bernardo Casertano, Irene Canale
assistente alla regia Giulia Capone
foto di scena Luigi Catalano
illuminazione e grafica Fabiana Canale
regia Carlo Dilonardo