Libero fino alla fine

Emanuele Vezzoli interpreta la confessione di Piergiorgio Welby in Ocean terminal, storia di un corpo alle prese con qualcosa che eccede sé stesso, sia nella vita, sia nella morte.

La scena si coagula intorno a un tavolo che ogni volta assume un diverso valore simbolico. È un altare, un letto su cui fare l’amore, un pulpito da cui gridare, una montagna da cui gettarsi, un’ara votiva su cui darsi come carne e sangue, un letto d’ospedale, una tomba, un’auto in viaggio, un grembo materno. Il protagonista è un corpo che, chiamato alla vita, trova ad assumersi da subito qualcosa di troppo al di là dell’umano, dato che si tratta di prepararsi già ora a una morte prematura.

C’è un codice genetico che insiste a scrivere la parola “fine” da subito, obbligando chi lo porta – Piergiorgio Welby – a fare i conti con una scrittura di morte e contro cui scrivere un testo alternativo. Welby si rifiuta di ridursi a corpo assistito, di darsi come alibi per la carità sociale. Si dà piuttosto come corpo su cui innestare una richiesta formale all’Altro (il Papa, il Presidente, noi tutti), per restare vivo, malgrado la morte abbia già in tasca la sua libbra di carne. «Ho scelto – scrive Vezzoli nelle note di regia – la via del teatro povero, essenziale in modo da rendere evidente l’atto sacrificale di Welby che si confonde perfettamente con la celebrazione teatrale».

Ocean Terminal di fatto è lo snocciolamento drammaturgico del romanzo omonimo di Piergiorgio Welby, ma anche una sorta di cerimonia laica, in cui il teatro si affranca dall’idea di spettacolo per assumere un valore liturgico. Di fatto il pubblico si trova a “mangiare e bere” il corpo di Welby, con il romanzo autobiografico a essere offerto in memoria della morte di un uomo, ma anche della nostra. Non è forse vero che nella misura in cui parliamo, moriamo? Avendo figli, non moriamo forse un po’? Rischiando di vivere al livello del nostro desiderio, non camminiamo pericolosamente su una corda tesa? Vivendo tra angoscia e libertà, ci ammaliamo e moriamo. Welby di fatto ci insegna a soggettivare la singolarità della nostra morte, senza scambiare la libertà con un po’ di illusoria protezione sociale.

Dall’infanzia cattolica alla scoperta della malattia, dall’immaginario adolescenziale alla seduzione chimica per lenire l’angoscia, Vezzoli racconta una vita sospesa tra diversi angoli di Roma e la claustralità di una stanza in cui covare la malattia. Questa è vissuta come una lente attraverso cui guardare il mondo con una tragica lucidità. Il desiderio di vita, concentrato nel culo splendidamente tondo dell’assistente sociale, è mortificato con l‘esangue linguaggio clinico con cui è trattato il suo caso. Che senso ha trattenere un corpo che va alla deriva, quando il desiderio è all’opposto più vivo che mai?

Dal punto di vista teatrale, il limite più grande di Ocean terminal è la sua matrice letteraria. La drammaturgia tuttavia cerca di espanderne l’angustia con i movimenti scenici, con l’immagine potente del corpo attoriale, ma soprattutto con la suggestione della voce di Vezzoli, capace di colorare il grido dell’uomo imprigionato dentro un corpo che trascina al fondo. Così facendo il pubblico è invitato a vibrare con quel corpo, a farsene compagno di cella, a respirare con la ventilazione assistita, a parlare con gli occhi e a tacere con la lingua di un soggetto ridotto a scheletro, a sarcofago, a marionetta senza più fili.

Il corpo di Welby grida il proprio diritto a soggettivare la parola “fine” contro un burocratizzato e plebiscitario “vitalismo” sociale. Questo cela l’impossibilità di pensare la morte, di farne opera. È ben più preferibile credersi infrangibili, considerarsi al riparo da qualunque evento possa alludere a un limite, ora che la scienza sembra promettere una lunga vita, senza garantire però una vivibilità appena soddisfacente. È contro questo inganno che si è eretto il povero corpo di Welby, e la sua voce sintetizzata digitalmente nella ripetizione senza sosta di un appello. La vita, e soprattutto la morte che ne fa corona, è una grande avventura che si fa col corpo, anche quando cade a pezzi.

L’impresa di Welby è stata quella di voler dare un volto e un nome alla morte, che al contrario colpisce a caso e in modo anonimo. Non resta allora che mirarsi per come la morte assume le sembianze di un corpo in frantumi, decidendo deliberatamente e in piena lucidità etica di lasciarsi andare al suo abbraccio. L’associazione Luca Coscioni e la galassia radicale hanno raccolto l’invito di Welby a essere liberi proprio in virtù di una fine, per incontrarsi lì dove l’uomo è costretto a misurarsi con qualcosa di così grande da restare senza voce, come un neonato che aspira per la prima volta aria nei polmoni fino a piangere di vita.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello

via G. Carini 78 – 00152 Roma
mercoledì 8 e giovedì 9 maggio 2019, ore 21

Ocean terminal
diretto e interpretato da Emanuele Vezzoli
dal romanzo Ocean Terminal di Piergiorgio Welby
adattamento drammaturgico Francesco Lioce e Emanuele Vezzoli
movimenti scenici Gabriella Borni
contributi audiovisivi Francesco Andreotti e Livia Giunti
comunicazione Monica Soldano
foto di scena Luigi Catalano
disegno luci Marco Zara
direzione organizzativa Carlo Dilonardo
direzione artistica Giorgio Taffon
con il sostegno di Castelvecchi Editore e dell’Associazione Luca Coscioni