Voca voca marinaru

Con Odissea a/r in scena al Teatro Bellini di Napoli, la pluripremiata Emma Dante non smette di stupire e, dirigendo una masnada di attori e attrici caparbi e capaci, mette in scena un’opera originale e superba votata all’esaltazione del corpo come macchina scenica perfetta.

Zeus è siculo. Vedere per credere. I muscoli tersi ci sono, certo, ma il divino, il più potente, il più saggio, il supremo degli esseri viventi è anche incredibilmente siciliano e per niente timido. D’altronde la sua occupazione principale era corteggiare pulzelle a destra e a manca… La cifra particolarissima della nuova fatica della regista palermitana, scritta e diretta «per i ventitré allievi della Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo», è tutta qui: sbeffeggiare il classico per mostrarne le fragilità, i difetti e, in ultimo, l’umanità.

L’operazione di “secolarizzazione” è attuata su due piani in contemporanea: quello testuale e quello registico. La storia narrata, infatti, è la buona vecchia Odissea che tutti conosciamo. Ulisse (Odisseo, per i meno), di ritorno da Troia, incorre nelle più omeriche delle peripezie e rimane incagliato tra le suadenti cosce di Calipso per sette lunghi anni, tempo in cui a Itaca, sua patria natia, la moglie-regina Penelope piange e si strugge nell’attesa del suo ritorno. Come spesso accade nella vita, il figlio Telemaco cresce e decide di andare in cerca del padre su esortazione di Atena (rigorosamente sotto mentite spoglie). Nel frattempo, i numi fanno in modo che il Laerziade riprenda il viaggio verso casa e, una volta qui, sconfigga i lascivi proci e riconquisti trono, talamo e paternità. Data l’equivalenza narrativa, a cambiare sono dunque i testi e le rappresentazioni dei vari personaggi.

Come suggerisce il titolo, questo “omaggio” al poema di Omero vuole esserne una rivisitazione in chiave contemporanea. Ecco quindi che gli schifosi proci si smanettano senza troppa pruderie con le terga rivolte verso il pubblico mentre le ancelle smaliziate si toccano il seno sinistro con fare apotropaico e gridano all’unisono: «basta co’ sto telaio!». La famosa trovata di Penelope per scampare alle nozze con i principi dell’isola, infatti, diventa qui motivo di fatica e frustrazione da parte delle donne che tessono e stessono senza posa a discapito, ahiloro, della propria vita sessuale, rendendo en passant palpabile come non mai la sofferenza della mesta sposa. La regia infinitamente poetica, però, fa da contraltare a questa patina ironica e dissacrante, rappresentando quello stesso sciagurato «sudario di morte» con braccia sincronizzate e un lungo, lunghissimo, velo nero.

La potenza immaginifica delle scenografie umane della Dante risulta dunque essere uno dei punti di forza della pièce, che gioca dall’inizio alla fine sul contrasto tra lirismo e materialismo, tradizione e cambiamento. Quando il nostos volge, infatti, al suo termine, Odisseo si scopre diverso. Come fa notare la solerte e tagliente moglie prima «era più basso», mentre ora «ha meno capelli» e «il figlio non gli somiglia per niente». E alle rimostranze di Telemaco, la tessitrice sicura di sé si fa scappare un regale «lascia fare a mammà», sebbene una volta corroborata l’identità del marito perderà tutti i fronzoli comici e si fonderà con lui in un abbraccio invero tenero. Il mito, insomma, è mutato. Gli anni sono passati per tutti, sia per i personaggi in carne e ossa sia per quelli più bidimensionali, incisi a lettere inchiostrate nelle nostre menti.

Grazie alla fluidità del cambio di scene, poi, (basta qualche metro di carta per rappresentare le onde dell’isola di Ogigia e riempire in un attimo lo spazio nero che accoglieva prima i lamenti di Penelope), ci si ritrova a sorprendersi del felicissimo susseguirsi di eventi e ad applaudire più e più volte a scena aperta, in parte anche per le istrioniche prodezze dei giovani attori che non hanno nulla da invidiare ai colleghi più attempati. Gli allievi della Scuola palermitana generano e invocano con la loro perenne presenza scenica tutti i luoghi della vicenda narrata, creando, ad esempio, una simbolica foresta di gambe giovani e ben tornite per dare corpo e anima all’isola della dea innamorata dell’umano ulisside per antonomasia.

Lo spettacolo non rimane un ricamo di intelligenza disincarnata e raggiunge senza panegirici, ma con verve pugnace il proprio scopo: affrancare l’odierno dalle tradizioni più rigide e vetuste (non sia mai che un’attrice abbia un tatuaggio in vista!) e dimostrare che anche senza orpelli è possibile far volare la mente. Emma Dante, infatti, si dimostra capace di concentrare tutto il mare in una bacinella di plastica, di catturare il vento in un lenzuolo e di concretizzare il destino incatenandolo a una voce che parla in dialetto eppur sembra essere nata su Itaca. Si assiste quindi alla messinscena di un teatro povero che non rinuncia alle ricchezze della lingua matri e ai singoli talenti i quali, come fili policromi, vanno a comporre un arazzo teatrale di sublime fattura.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14 – Napoli
dall’8 al 13 novembre
martedì, giovedì, venerdì e sabato ore 21.00
mercoledì e sabato ore 17.30
domenica ore 18.00

liberamente tratto dal poema di Omero
Odissea a/r
testo e regia Emma Dante
con gli allievi attori della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo Manuela Boncaldo, Sara Calvario, Toty Cannova, Silvia Casamassima, Domenico Ciaramitaro, Mariagiulia Colace, Francesco Cusumano, Federica D’Amore, Clara De Rose, Bruno Di Chiara, Silvia Di Giovanna, Giuseppe Di Raffaele, Marta Franceschelli, Salvatore Galati, Alessandro Ienzi, Francesca Laviosa, Nunzia Lo Presti, Alessandra Pace, Vittorio Pissacroia, Lorenzo Randazzo, Simona Sciarabba, Giuditta Vasile, Claudio Zappalà
elementi scenici e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
suono Gabriele Gugliara
assistente ai costumi Italia Carroccio
adattamenti e modifiche sartoriali Silvia di Giovanna
assistente alle coreografie Sandro Maria Campagna
assistente di produzione Daniela Gusmano
assistenti volontari Manuel Capraro, Silvia Maiori
canzoni Serena Ganci (Zeus; La canzone delle ancelle) e Bruno Di Chiara (Rapimi la porta)
direttore dell’allestimento scenico Antonino Ficarra
produzione Teatro Biondo di Palermo