OperaSeconda giornata del Festival ideato da Teatro del Lemming. Alla fine della giornata ci si chiede: dove sta andando la nuova generazione artistica?

Fare un bilancio a metà del percorso di Opera Prima può ovviamente falsare i risultati, ma proveremo comunque a rintracciare un paio di linee guida tra quelle che sembrano essere emerse come tendenze della scena teatrale attuale.
Un passo indietro, però, prima di avventurarci nel campo dell’analisi. La seconda giornata festivaliera inizia con una Compagnia storica, il Teatro delle Ariette e il loro originale modo di intendere l’incontro tra spettatore e attore (una delle traiettorie sulle quali sembra essersi mossa con coerenza la direzione artistica della manifestazione), qui declinato nella forma della convivialità. Il ritrovarsi di un gruppo intorno a una tavola che viene pian piano imbandita, con i ritmi e i gesti antichi della cucina (come tagliare a mano le tagliatelle o raccogliere la farina scopettando i tavoli da lavoro perché nulla doveva – o deve – andare perso) si sposano, nella loro artigianalità, a quelli altrettanto antichi del mestiere dell’attore. Con la precisione di una forte direzione registica, si mescolano momenti e racconti privati, dove l’autofinzione serve da spunto per allargare il discorso a una collettività sempre più vasta – da quella del borgo dove vivono e lavorano le Ariette, al mondo rurale di ieri e di oggi, fino alla società attuale nella sua dimensione apparentemente liquida ma realmente viscosa, impura, intorbidita dalla perdita del contatto con l’altro da sé. Ed è verso questo contatto come scelta poetica ed estetica, qui in forma di convivio (e del resto, ragionare banchettando ha illustri precedenti fin dall’epoca platonica), che le Ariette tendono ormai da più lustri, con coerenza e un tocco di leggerezza, tra momenti ilari che celano profonde verità, qualche brano di Tom Waits reinterpretato con maestria (come Last leaf), e la lezione del clown, ossia che il riso è diabolico perché, come ben sapeva Jorje ne Il nome della rosa, scaccia la paura della morte – e aggiungeremmo noi, così facendo ci salva la vita.

Ecco quindi sorgere spontanea una considerazione che mette a confronto la Chiamata pubblica del Teatro del Lemming di ieri e l’esperienza delle Ariette di oggi con i lavori delle compagini più giovani. E non è sicuramente un confronto sulle capacità tecniche o attorali, bensì sui contenuti. Ossia, l’afflato verso una dimensione comunitaria, verso una forma teatrale che, partendo anche dal racconto del singolo, si trasformi in compartecipazione di una idealità condivisa, oggi, sembra mancare. Si registra didascalicamente la paura o ci si mimetizza nel dolore privato, ma non si riesce a sublimarlo né tanto meno ad attraversarlo per giungere a un effetto catartico, restituendoci il senso di comunità. Forse in un tempo in cui si è smarrita la fede ragionata in un ideale, questa scelta delle nuove generazioni è subita più che fatta consapevolmente. Eppure, pensando al Novecento, siamo certi che i ragazzi del Maggio francese o le prime femministe degli anni Settanta, le Suffragette o i no global di fine millennio avessero migliori basi, a livello culturale, storico e sociale, dellattuale generazione? Gli ideali si costruiscono attraverso le nostre scelte quotidiane e l’individualismo, di cui la finta compartecipazione dei social è solo un aspetto, potrebbe non essere assenza di un’idealità comunitaria quanto consapevole scelta di vita egotistica.

Ma torniamo al Festival. In prima serata, Rachel Erdos presenta la coreografia Q&A (The 36 questions) con quattro danz-attori. Una serie di domande da questionario psicoattitudinale costituisce la base drammaturgica per lo svolgersi dell’azione, che si dispiega in altrettante risposte agite a livello soprattutto gestuale. Sebbene ci sia una certa freschezza complessiva che traspare soprattutto nelle risposte più ironiche, nelle parodie e nei contrappunti gestuali che demistificano le stesse domande, alcune scelte non convincono. La prima è il coinvolgimento del tutto retorico del pubblico (verso il quale sembra tendere sempre più la danza sia israeliana, di cui Erdos è esponente di fama da anni, sia italiana). Il finale, in particolare, con gli spettatori costretti a sedersi per terra e a guardarsi negli occhi (ma anche quelli invitati a sedersi per qualche minuto sulla scena e poi rimandati al loro posto senza alcuna ragione estetica o funzionale) è parso contenutisticamente vuoto ed emotivamente imbarazzante. Le risposte gestuali, in secondo luogo, quando non giocate premendo il tasto dell’autoironia o del contrappunto, spesso paiono momenti di prova, simili agli esercizi individuali da sala da ballo, alla sbarra di fronte allo specchio.

A fine serata, Caroline Baglioni interpreta Gianni, mettendo in scena una stringente mimesi dello zio a metà degli anni Ottanta. Eccoci quindi di fronte a un monologo, un racconto personale, con una rievocazione del periodo storico soprattutto a livello musicale. Purtroppo, dovendo presentare il lavoro nell’ex Chiesa San Michele, Baglioni non può giovarsi del supporto del disegno luci e, quindi, possiamo prendere in considerazione soltanto testo, interpretazione e movimenti in scena. Il primo, aderendo alla voce dello zio (che sarà restituita da una registrazione d’epoca nel finale), si perde dopo una prima mezz’ora intensa con una serie di falsi finali e accenti sempre più grevi. Anche l’interpretazione pare sfrangiarsi in tic troppo spesso ripetuti, avulsi passi di danza, reiterazioni che alla lunga non approfondiscono il personaggio né ne allargano la dimensione da singolo a umana. Pare anche qui che l’individuo, nelle sue peculiarità, sia ritratto fedelmente ma a livello in qualche modo superficiale. Il suo disagio non si fa mai generazionale o empaticamente condivisibile perché manca sempre un qualcosa, come quella sigarettina (tipica, ad esempio, dei pazienti degli ospedali psichiatrici) che, però, Baglioni finge ma non tiene in mano. La gestualità, infine, soprattutto nel lungo finale, comunica più che il dolore della perdita o l’allontanamento progressivo e definitivo del protagonista da ciò che lo circonda, una certa stanchezza, un tentativo di afferrare un’essenza aldilà della mimesi esteriore, che però non sembra riuscire.

E qui avvertiamo l’esigenza della seconda, e ultima, considerazione più generale. Ossia di come il lavoro sempre più in solitaria dell’attore, spesso anche drammaturgo e regista di se stesso, forse infici in parte i risultati finali delle compagini più giovani. La mancanza della dimensione di Compagnia si sente. Come di un occhio esterno che dialoghi e si confronti/scontri con la personalità attorale. Soprattutto nel momento della crescita artistica, ma anche nel prosieguo se non si vuole scadere nel manierismo o nell’autocitazione, ha grande valore il senso di appartenenza a una comunità composta di personalità e ruoli diversi con i quali è possibile costruire progetti comuni e condivisi. Ma forse il teatro di compagnia era figlio di una società ancora dotata di ideali comunitari. Nell’era dell’individualismo liberista, ma non libertario, il monologo agito da autori/attori autodiretti ne pare la logica conseguenza perché il teatro, da sempre, è specchio – almeno in Occidente – della propria società.

Gli spettacoli sono andati in scena nell’ambito di Opera Prima Festival:
Edizione XV – Generazioni

da giovedì 12 a domenica 15 settembre 2019
Rovigo, varie location

venerdì 13 settembre, ore 13.15
Museo dei Grandi Fiumi
Sala Flumina
Teatro delle Ariette presenta:
Attorno a un tavolo. Piccoli fallimenti senza importanza
di Paola Berselli e Stefano Pasquini
con Paola Berselli, Maurizio Ferraresi e Stefano Pasquini
regia Stefano Pasquini
produzione Teatro delle Ariette 2018

ore 21.00
Teatro Studio
Rachel Erdos presenta:
Q&A (The 36 questions)
una performance di Rachel Erdos
danzatori performer Matan David, Tomer Giat, Shay Haramaty, Ori Lenkinski
drammaturgia Nava Zuckerman
produzione Shmulik Shalit
ideazione e coreografia Rachel Erdos

ore 22.15
Ex Chiesa San Michele
Caroline Baglioni/Michelangelo Bellani presentano:
Gianni
ispirato alla voce di Gianni Pampanini
di e con Caroline Baglioni
luci Gianni Straropoli
regia Michelangelo Bellani
supervisione alla regia  c.J. Grugher

www.festivaloperaprima.it