L’Accademia Nazionale Teatro e Arte nel Sociale annuncia di avere registrato il marchio per quella che, finora, era una professione. Ci troviamo di fronte a una degenerazione del branding?

Premessa. Alcuni artisti teatrali mi hanno girato un link nel quale si mostra un Attestato di registrazione per Marchio d’Impresa del Ministero dello Sviluppo Economico che certifica, in data 23.11.2018, il rilascio del marchio Operatori di Teatro nel Sociale (ivi compresa l’immagine dello stesso) per la Classe 41 – declaratoria: Educazione; formazione; divertimento; attività sportive e culturali; e con i seguenti prodotti/servizi oggetto di protezione: 410017. Istruzione; e 410017. Educazione.
A questo documento segue una lettera di spiegazioni (dell’Accademia di cui sopra) che specifica che, in virtù del riconoscimento del Ministero, «solo coloro che hanno conseguito l’attestato di frequenza dei nostri corsi potranno avvalersi in Italia della dicitura Operatori di Teatro [nel] Sociale». Inoltre, si sottolinea che entro l’anno definiranno (chi? La sola Accademia di cui sopra?) le modalità di iscrizione all’Albo (che non risulta esistere al momento, almeno secondo gli operatori che abbiamo contattato).

Perché scriverne? Perché la notizia ci ha messi di fronte ad alcuni dubbi. Il primo è come sia possibile riconoscere una professionalità, del singolo o di un’associazione/Compagnia teatrale, non in base a un titolo riconosciuto dal Ministero della Pubblica Istruzione (che si può conseguire in scuole di diverso ordine e grado, pubbliche o private) o a un’esperienza maturata sul campo, bensì con un marchio d’impresa, che da sempre contraddistingue un’azienda e i suoi prodotti e del quale può essere, ovviamente, ceduta la licenza d’uso (ma che non può essere insegnato o appreso). Ovvero, come si può far risalire a un marchio una serie di competenze non astratte (ossia derivanti da quel genere di pubblicità che eleva il marchio a oggetto magico, usando la leva del sillogismo aristotelico: vedo il giocatore di basket usare le scarpe con quel logo; quindi, se userò anch’io quelle scarpe, diventerò un campione come il mio idolo), bensì specifiche, che prevedono poi un inserimento lavorativo e la possibilità di accedere a concorsi pubblici.
Non risulta chiara nemmeno l’esclusività di una dicitura che è, in realtà, la definizione di una professione. La reductio ad absurdum sarebbe: Persinsala, domani, registra il marchio Critico di teatro nel sociale e poi pretende che solamente chi segue i nostri corsi possa fregiarsi di detto titolo. E magari impone ai giornali (al di là del contratto di lavoro della stampa e non tenendo in considerazione l’Albo dei Giornalisti) l’assunzione, quali critici di teatro nel sociale, solo degli studenti dei succitati corsi. E qui non entriamo nel merito della definizione stessa – teatro sociale (o teatro nel sociale, dato che l’Accademia toglie e mette indifferentemente il «nel») – che ci appare una tautologia.
Leggendo i nostri dubbi, molti tra di voi si saranno fatti una risata e liquideranno il problema come non esistente. E forse è un falso problema. Ma le parole hanno un loro peso specifico e andrebbero ponderate. Quando con il Codice dello spettacolo dal vivo si è dato pari valore al teatro professionale e amatoriale, molti pensavano fosse solamente un riconoscimento formale e non sostanziale. Ora che vediamo alcuni teatri riempire i Cartelloni con spettacoli di artisti amatoriali, qualcuno magari comincia a rendersi conto che è in atto uno spostamento valoriale che implica, tra l’altro, sottrarre dignità, ma anche spazi concreti e reddito, alle professioni di attore, regista e autore teatrale.
Pensare di estendere al marchio di un prodotto o servizio il valore del riconoscimento di un titolo di studio (che, come tale, dovrebbe essere approvato in sede di Ministero dell’Istruzione e, oltre che in Italia, in ambito europeo); e confondere l’ambito del branding (contenitore che ormai detta legge nell’economia anteponendo l’immagine al contenuto) con quello del sapere (che dovrebbe essere il contenuto, in questo caso competenze apprese sul campo, in un’aula magari universitaria e/o sul palcoscenico), sono tendenze a cui si dovrebbe fare attenzione.

Per quanto riguarda l’Albo, infine, a parte la difficoltà di definire percorsi e applicazioni delle competenze che dovrebbe avere un operatore di teatro [nel] sociale, resta da capire quale ritorno detta figura potrebbe avere, ossia l’effettivo bisogno di una simile professione e gli sbocchi reali nel mondo del lavoro. Dato che troppo spesso, ormai, si ottengono diplomi e persino lauree (e non marchi) che servono a poco o a nulla.
Per non entrare nel merito della definizione del termine sociale, ossia mettendo nel calderone, come sempre, esperienze talmente diverse tra loro da necessitare, ovviamente, anche di competenze diverse – come il carcere (con l’ulteriore divisione tra case circondariali e di reclusione), la disabilità (fisica e/o psichica), i migranti e i rifugiati politici, le minoranze etniche, il teatro nelle scuole, situazioni di marginalità economica, e così via.

A noi i dubbi. A operatori, artisti, compagnie e istituzioni rispondere.