Grass e Mann ancora in campo (ma Heinrich Böll in panchina)

Opinioni di un clown, parabola della disgregazione di un’intera Europa, in scena al Teatro della Visitazione per la rassegna Contesti Contemporanei.

Il romanzo Opinioni di un clown è forse il capolavoro che meglio si ricorda dello scrittore tedesco, e Premio Nobel, Heinrich Böll. Assai affine all’altrettanto noto Ritratto di gruppo con signora, con cui forma un dittico ideale, è un testo ironico, provocatorio, funambolico a tratti, in cui l’autore disegna senza sconti i contorni di una Germania in sfacelo, dove la borghesia implode tristemente e la perdita dei valori aleggia ben più spettrale del fatidico comunismo marxista di un secolo prima. Germania che, va da sé, riflette oggi potentemente, e ancor meglio di ieri, il destino dell’Europa tutta.
C’è quindi una buona ragione per portare a teatro un libro del genere.
Il protagonista di Böll è l’erede naturale della vena artistica fuori della realtà e dell’inaridimento progressivo dell’Hanno Buddenbrook di Mann, e al tempo stesso l’epigone disfattista e imbranato dell’Oskar di Günter Grass, emblema letterario di una condizione dell’uomo contemporaneo ormai acclarata: il rifiuto di crescere.
Chiuso nella sua stanza, il nostro clown non fa ridere, si piange piuttosto addosso.
Una madre anaffettiva, o presunta tale, un padre servo del Capitale, quindi taccagno, un amore idealizzato e perduto per pusillanimità, condizionamenti esteriori, inerzia; un fratello convertito al cattolicesimo ostaggio del seminario, una sorella perita in guerra, verso la quale il senso di colpa è immedicabile, e acuisce il suo isolamento, visto che tale perdita è l’argomento tabù di famiglia. Una carriera inoltre spezzata, quella del nostro clown, in tutti i sensi dal momento che si trascina in scena zoppicando: si è rotto un ginocchio durante l’ultima sua rappresentazione e ora, gli dice il suo agente, manco gliela vogliono pagare per intero! È senza soldi, preda dell’ossessione per l’amore svanito, e di nuovo in tutti i sensi considerando che è solo una sua fantasia la donna (Chiara Condrò) che appare in scena ora per allettarlo, echeggiando d’argentine risate, eccessivamente spensierate, ora per redarguirlo con altrettanto svagato disincanto, con ostile distacco.
Dunque, ridotto a relitto, Hans soffre di malinconia e mal di testa, e di monogamia soprattutto, come apertamente confessa, e si consola ascoltando canti gregoriani, come faceva durante la guerra Simone Weil per lenire le sue terribili emicranie: solo che Simone, ebrea errante, non temeva di andarli ad ascoltare sul posto, entrando nelle chiese. Hans si limita a far girare un disco, come fa girare a vuoto e su se stessa la sua vita, e la storia potrebbe svolgersi in un’oppieria di Parigi o in uno scantinato di Londra, al posto di Bonn, perché questa Bonn è uno sfondo irrelato, così presente da potersi fare invisibile fino all’autoelisione. Autoelisione che magari in un testo teatrale fa perdere un po’ i riferimenti storici allo spettatore, più concentrato qui sulle ragioni personali della sofferenza del protagonista, sul suo privato, ma forse nell’adattamento non avrebbe guastato lasciare spiragli ulteriori, tasselli illuminanti che nel romanzo permettono di immergersi nel dramma grottesco di Hans con maggiore, devastante profondità.
La scelta di regia è invece quella di disinnescare l’Heinrich Böll più inquietante, graffiante, imbarazzante, per restituirci un sottotono quasi minimalista, un “dramma da interno” con forzato effetto notte, quasi un dietro le quinte alla Truffaut che sposta decisamente la focalizzazione dal disfacimento anarchico della gioventù tedesca del dopoguerra alla metafora aperta sul contemporaneo. A rafforzarci in questa convinzione le luci pastose alla Hopper, che rendono la mimica degli attori un fallimentare annaspare nel vuoto della solitudine incondivisibile. Motivo per cui l’arrivo del padre di Hans in scena non è il sopraggiungere di un Convitato di Pietra terribile, da affrontare con tutte le proprie forze per respingerne la meschina evidenza vittoriosa, non è il comparire violento, inevitabile e assai poco catartico, della personificazione di quel Capitalismo che per primo Hans sfida diventandone l’antitesi, cioè un clown. Il confronto non si carica di solennità o metafisico senso di sconfitta, non profuma nemmeno di Storia. Si riduce al consueto scontro generazionale, tra un figlio smarrito che ha tradito, da copione, le prosaiche aspettative dei genitori e un padre impigrito che non mira neppure a convincere più di tanto la propria dissennata prole.
Heinrich Böll, il dissacratore, cede qui il passo a un Heinrich Böll modellato sui nostri tempi, e dunque abbastanza rassegnato. Perché ormai i padri non rappresentano più i massimi sistemi da scardinare: se la devono vedere semmai, direbbe Serra, con figli sdraiati.

Lo spettacolo continua
Teatro della Visitazione
Via dei Crispolti,142 Roma
fino all’8 novembre
domenica ore 18.00

Opinioni di un clown
regia Roberto Negri
con Stefano Skalkotos, Chiara Condrò, Alessio Caruso
voci fuori scena Cosimo Cinieri, Massimo Giuliani, Daniele Giuliani, Daniela Poggi
luce e fonica Giacomo Cursi
adattamento teatrale Stefano Skalkotos
traduzione Amina Pandolfi
musiche Marcello Fiorini
scene e costumi Rossella Ramunni
realizzazione scene Lab Area 5
supervisione artistica Federico Vigorito
organizzazione Flavia Ferranti
direzione artistica Dino Signorile
produzione Compagnia “Tiberio Fiorilli”
in collaborazione con Officina Dinamo e Area 5
con il patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania