Sull’essere e il non essere

bellini-napoliIn scena al Teatro Bellini di Napoli fino al 29 marzo c’è Orchidee, l’ultimo spettacolo di Pippo Delbono, uno dei talenti più affascinanti e indefinibili del teatro italiano contemporaneo.

È un flusso di coscienza pieno e straripante – che prende vita attraverso la voce, grave e affannata, del regista Pippo Delbono – quello che va in scena al Teatro Bellini di Napoli.
Un atto unico con numerosi finali e, in fondo, nessun finale preciso se non la consapevolezza del vuoto dei nostri tempi accanto al bisogno, primitivo, ma anche semplicemente umano, di parlare ancora di vita e di amore.
Orchidee è uno spettacolo pieno di carica visionaria, nonché figlio naturale di una perdita, di un vuoto, quello lasciato dalla morte della madre di Delbono, avvenuta un anno fa.
Una rappresentazione che a tratti presenta tutte le caratteristiche di una veglia funebre con, da una parte il tentativo di ricordare, ma dall’altra quello di esorcizzare il dolore.
Vivi che sono già morti e morti che continuano a respirare: costante è il respiro della madre nella pièce teatrale, una madre che il regista ligure descrive come fervida cattolica e pertanto folle al pari di qualsiasi grande rivoluzionario, come a dire che ogni assolutismo, ogni presunzione di conoscenza assoluta è in realtà fallace e cieca alla stessa maniera.
In scena vi sono dodici performers e di performers, non di attori, bisogna parlare; Delbono rigetta, infatti, il teatro tradizionale, luogo polveroso, finto, morto, a favore della verità delle emozioni. Si sente in questa scelta tutta l’influenza del lavoro e della collaborazione con la ballerina e coreografa tedesca, Pina Bausch, il cui incontro – avvenuto nel 1987 – ha segnato una tappa fondamentale del suo percorso artistico.
Siamo, dunque, dinanzi a un teatro performativo che trae dai gesti la sua catarsi; dalla corsa di corpi nudi – nudi come pezzi di carne buttati lì, come sopravvissuti relitti di società – alla danza goffa e liberatoria del regista.
«A nessuno importa se non sei bravo nella danza. Solo alzati e danza», avrebbe detto la ballerina e coreografa statunitense Marta Graham.
Insomma, chi si recherà a teatro per vedere Orchidee non si aspetti una narrazione logica, fatta di cause ed effetto, di episodi legati tra loro; è una piena di immagini e parole.
Le immagini sono quelle messe in scena, ma anche quelle proiettate sullo sfondo; un apporto multimediale che non disturba, anzi accompagna e sostiene le parole.
Le parole, invece, vengono da Shakespeare, Kerouac, Weiss, Baucher, Deep Purple, citate forse in maniera eccessiva – e a tratti pesante – e tenute insieme da frammenti firmati dallo stesso Delbono e interpretati dalla sua voce proveniente dalla platea.
È proprio dalla platea che comincia lo spettacolo: una voce invita a spegnere il cellulari e augura buon divertimento. Non è però la solita voce registrata che viene mandata in diffusione all’inizio di ogni rappresentazione; a parlare è il regista stesso che sceglie di cominciare proprio così, ovvero spiazzando il suo pubblico, invitandolo a notare tutta l’assurdità di utilizzare un telefono a teatro (per fotografare cosa? Per inviare dei video dello spettacolo a chi?) e di augurare buon divertimento (in che senso buon divertimento a teatro?).
Poi c’è la musica a chiudere il cerchio di suggestioni e sensazioni: da Enzo Avitabile ai Deep Purple, da Miles Davis a Philip Glass, da Nino Rota a Wim Mertens, solo per citarne alcuni.
Ma ci sono ancora tante altre cose che Pippo Delbono mette insieme e che devono essere lasciate ai giudizi soggettivi e personali: dalla proiezione (discutibile) del filmato di sua madre negli ultimi giorni di vita, di cui si sente anche la voce debole e flebile di un corpo provato dalla malattia, alla nudità dei performers a volte straniante.
La sensazione generale e finale che viene da tutte queste suggestioni (visive, vocali, auditive) è quella di aver perduto qualcosa. Lo stesso Delbono confida di sentirsi smarrito, confuso, di non capire più niente del mondo e di non volerci più stare; eppure questo è l’unico mondo in cui possiamo, e in qualche modo dobbiamo, stare.
Sì, proprio questo mondo di violenze, di omofobie, di pregiudizi, di ipocrisie, di cliché da rispettare, di corsi e ricorsi storici, di storie già viste, frasi già dette, lutti già vissuti, di persone che si credono emancipate e per questo temono la strumentalizzazione della diversità.
Da qui l’inorridire di taluni al pensiero che nel cast ci possano essere attori come Bobò, un sordomuto incontrato da Pippo Delbono negli anni Novanta e fatto uscire dal manicomio di Aversa dopo un internamento di quarantacinque anni; Bobò è attualmente parte centrale della compagnia, assieme, tra i tanti, a un ragazzo handicappato che tiene divinamente – con leggerezza e intensità – il palco.
Viene da pensare che queste stesse persone che inorridiscono, che temono la strumentalizzazione, dimentichino nello stesso tempo – ed è qui il caso di ricordarlo – che sono davvero pochi gli spettacoli in cui in scena ci sono sordomuti e handicappati.
Sempre queste stesse persone sono probabilmente dal parrucchiere per la piega settimanale o all’autolavaggio per la pulizia della propria automobile quando nelle strade del mondo ogni giorno omosessuali continuano a essere derisi, donne a essere violentate, handicappati a essere esclusi.
Insomma, non vi è nulla che abbia inventato Pippo Del Bono: a lui è solo il merito di rappresentare ciò che già esiste nella realtà attraverso la maniera visionaria e allucinata che gli appartiene.
Quello che stupisce e dona sollievo è, quindi, che in mezzo a questo vuoto ci sia ancora spazio per le orchidee.
Già, perché forse, per ritrovare ciò che ci sfugge – o che forse non ci è mai appartenuto realmente -, occorrerà tornare al titolo dello spettacolo e chiedersi perché la scelta di questo fiore.
L’orchidea è il fiore più bello, ma anche il più malvagio perché non si riesce mai a riconoscere quello che è finto da quello che è vero.
Ma orchidea in francese vuol dire anche eternità, qualcosa di afferrabile e inafferrabile nello stesso tempo.
Proprio per questo, sul finale dello spettacolo, sembra quasi che l’Orchidea di Pippo Delbono si trasformi nella Odorata Ginestra di Leopardi e come lei getti le sue radici nel vuoto di terreni aridi, per alzare il suo stelo verso cieli d’amore, contro ogni resistenza lavica.

«Voi che avete permesso disprezzo e scherni, le offese
raffinate, le allusioni discrete e le interdizioni e le
segregazioni. E poi avete strappato a questo cuore troppo
amoroso legami che lo uniscono al battito del mondo,
Voi, siate comunque benedetti perché non avete permesso,
voi che l’odio incidesse questo cuore di uomo. »

(Poesia di Léopold Sédar Senghor, politico e poeta senegalese citato da Pippo Delbono, con cui si chiude Orchidee.)

Lo spettacolo continua
Teatro Bellini
via Conte di Ruvo 14, Napoli
dal 24 al 29 marzo

Orchidee
di Pippo Delbono
regia Pippo Delbono
con Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
immagini e film Pippo Delbono
luci Robert John Resteghini
musiche Enzo Avitabile, Deep Purple, Miles Davis, Philip Glass, Victor Démé, Joan Baez, Nino Rota, Angélique Ionatos, Wim Mertens, Pietro Mascagni
direzione tecnica Fabio Sajiz
suono Corrado Mazzone
luci e video: Orlando Bolognesi
elaborazione costumi Elena Giampaoli
capo macchinista Gianluca Bolla
responsabile produzione Alessandra Vinanti
organizzazione Silvia Cassanelli
amministratore di compagnia Raffaella Ciuffreda
produzione Compagnia Pippo Delbono – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Nuova Scena/Arena del Sole- Teatro Stabile di Bologna, Théâtre du Rond Point Parigi, Maison de la Culture d’Amiens Centre de Création et de Production.