Parsifal secondo Romeo Castellucci

La foresta vivente, la camera delle torture, la città capovolta nel Parsifal di Wagner che ha inaugurato la stagione 2014 del Teatro Comunale di Bologna.

Parsifal di Wagner è un dramma sacro in cui il Cristianesimo ritrovato va a braccetto con la filosofia di Schopenhauer, le riflessioni sulla tragedia in musica si sposano con una scrittura musicale di rara sapienza. Si tratta, insomma, di un’opera testamento quasi impossibile da rappresentare fosse solo per motivi tecnici e non a caso Wagner aveva vietato la sua rappresentazione in un teatro che non fosse quello di Bayreuth.

Va dunque riconosciuto al Comunale di Bologna il merito di avere colto per la seconda volta questa sfida: nel 1914 ospitò la prima italiana dell’opera e quest’anno festeggia il centenario di quella data storica, inaugurando proprio con questo titolo la stagione 2014. Per l’occasione riprende l’allestimento del Théâtre de la Monnaie di Bruxelles firmato nel 2011 da Romeo Castellucci, il regista della Societas Raffaello Sanzio, la più importante compagnia di ricerca del teatro italiano. Una ripresa che presenta, però, un nuovo direttore (Roberto Abbado, antiretorico e flessibile al massimo) e rinnova anche il cast vocale, confermando solo il bravo Andrew Richards (Parsifal) e Anna Larsson (Kundry). Una felicissima scelta, vista, per esempio, l’eccellente prova di Gábor Bretz (Gurnemanz) e il carismatico Lucio Gallo nel ruolo di Klingsor,

Castelluci entra così con prepotenza nella storia dell’interpretazione wagneriana, tanto che la stampa internazionale ha osannato questa produzione gridando al capolavoro. Per evitare equivoci precisiamo che non si tratta della solita attualizzazione di un’opera lirica, per intenderci sul modello della Traviata scaligera diretta da Dmitri Tcherniakov che in fondo rimane ligia alla drammaturgia originaria, rispolverando solo scene e costumi. No, quella di Castellucci è una vera appropriazione del Parsifal che a questo punto diventa una sua opera, come la Tragedia endogonidia.

Che lo sguardo del regista sia anche critico si capisce dalla prima immagine: sul sipario è proiettata un’immagine di Friedrich Nietzsche. Proprio sul Parsifal si consumò infatti la fine dell’amicizia con Wagner, accusato di essersi prostrato ai piedi della Croce.

Castellucci rinuncia però a mettere in scena simbolismi cristiani, celtici o nazisti e si chiede principalmente quale sia il senso ultimo della ricerca di Parsifal. Di conseguenza via il Graal, via la spada di Longino. A loro posto entrano in scena carcasse di animali, un serpente albino (un simbolo di circolarità che ritorna più volte), un cane lupo.

Ogni atto rappresenta un diverso dominio. Il primo è il dominio della natura ed è rappresentato da una fitta boscaglia, mentre i cavalieri del Graal sono creature arboree. La foresta palpita e vive, accoglie prima la sofferente e pietosa Kundry e la mette poi in relazione con lo sprovveduto cacciatore Parsifal. Il celebre cambio scena che dovrebbe portare Parsifal e Gurnemanz nella sala dove si compie il rito del Graal («lo spazio qui diventa il tempo») è in realtà un suggestivo smontaggio scenografico: da questo momento l’attenzione del regista è tutta concentrata sulla ferita di Amfortas, una sorta di buco nero che allargandosi assorbe tutte la scena. Il rito del Graal è inoltre totalmente sottratto allo sguardo dello spettatore da un bianco sipario che, come una iconostasi, protegge il mistero. In questo atto un attento pudore registico si ferma prima dell’impossibile rappresentazione.

Il secondo dominio è il regno del male. Klingsor, il mago cattivo che incapace di autodisciplinarsi si è evirato, è un direttore d’orchestra che esercita la propria autorità su alcune donne legate secondo la tecnica dello shibari giapponese. Il suo castello si presenta come un luogo della sessualità anaffettiva, uno spazio candido, asettico, sbiancato dal cloro: un po’ la stanza neoclassica di 2001 – Odissea nello spazio di Kubrick un po’ quella della Tragedia endogonidia (cui rimanda anche la scena della levitazione della protagonista). Ed è qui che avviene l’incontro di Parsifal con la femminilità, prima con le fanciulle fiore, poi con la tentatrice Kundry. Tutto è duplicato: doppio è Kligsor, doppi sono gli amanti (grazie ad una proiezione video). Uno è però il sesso femminile da cui proveniamo e che viene mostrato senza esitazione, ma senza l’esplicita esibizione del celebre quadro (L’origine du monde) di Courbet. Stranamente però questo momento, forte e delicatissimo insieme, è inserito nell’episodio delle fanciulle fiore, trattato da Wagner con distacco superficiale, alla maniera italiana, per preparare l’incontro essenziale quello con Kundry. Ovviamente quando arriva il momento del bacio Castellucci ha già anticipato e bruciato questa immagine che non può più essere altrettanto efficace.

Il terzo atto (il ritorno di Parsifal nel regno del Graal e il suo insediamento al posto di Amfortas) è invece il dominio della collettività: una moltitudine di uomini che avanzano senza meta su un rumoroso tapis roulant. Alle spalle di essi sorge una città capovolta. Stranamente finisce per concludere come Patrice Chereau, nella sua celebre regia del Götterdämmerung del 1976 a Bayreuth, che chiudeva con forza con l’immagine di un popolo alla Pellizza da Volpedo che interrogava il pubblico sul senso del proprio futuro. L’immagine qui invece è noiosa e ripetitiva: Castellucci amplifica una sola idea, eseguita tra l’altro con la semplice tecnica di un esercizio di training e azzera completamente tutte le varie articolazioni su cui è costruita la drammaturgia musicale dell’atto. Gli preme sottolineare che in questa società contemporanea non c’è Graal, non c’è fine, non si ritorna all’inizio, ma si cammina da soli senza senso, con grande e profondo dolore.

Lo spettacolo continua
Teatro Comunale
Largo Respighi, 1, 40126 Bologna
repliche: 21 gennaio (ore 19), 23 (ore 19) e 25 (ore 15,30)

Parsifal
di Richard Wagner
Interpreti: Andrew Richards (Parsifal), Anna Larsson (Kundry), Gábor Bretz (Gurnemanz), Lucio Gallo (Klingsor), Detlef Roth (Amfortas), Arutjun Kotchinian (Titurel)
Direttore: Roberto Abbado
Regia, scene, costumi e luci: Romeo Castellucci
Drammaturgia: Piersandra di Matteo
Maestro del Coro: Andrea Faidutti
Maestro del coro di voci bianche: Alhambra Superchi
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Coro di Voci Bianche del Teatro Comunale di Bologna
Allestimento: Théâtre de la Monnaie, Bruxelles