Nel chiostro della sede storica di via Rovello, nell’ambito dell’Ottobre russo al Piccolo, il professor Fausto Malcovati sollecita Lev Dodin a parlare dei suoi spettacoli čechoviani approdati a Milano; e quel signore dall’aspetto bonario, i capelli e la barba bianca che ne ammorbidiscono ulteriormente la figura, rievoca le stagioni della sua vita, che si intrecciano con la grande storia, legate a quei lavori.

Racconta del suo amore giovanile per Čechov; della meraviglia con cui si è avvicinato al geniale, acerbo Dramma senza nome (il cosiddetto Platonov); del timore scaramantico con cui ha affrontato Il gabbiano; del lungo e tormentato percorso, ultra ventennale, che porta lui e i suoi collaboratori a “partorire” finalmente Tre Sorelle. L’interprete preferisce tradurre quella parola con termini più neutri, come “mettere in scena” o “fare”, ma lui, parlando dei suoi spettacoli, usa, sempre al plurale, proprio quel verbo: rodìt’, “dare alla luce”, “generare”, che in russo ha la stessa radice di “patria” e di “genitore”.

In questo legame quasi carnale, nell’affetto paterno, ma condiviso, che Dodin rivela per le sue creature teatrali, mi sembra di capire meglio il segreto del loro fascino.