Dalla rivoluzione di Basaglia/Scabia alle residuali esperienze artistiche con chi soffre di disagio psichico

Chi tra voi non ha già letto la prima parte dell’inchiesta, pubblicata su IntTheNet, potrebbe pensare che quando si parla di follia, si parla di persone ‘alienate’ e, quindi, distanti da noi perché ‘diverse’. Altri crederanno che, chiusi i manicomi, si sia risolto il problema e che, nel caso di disagio psichico, bastino i farmaci. La cura dell’anima attraverso l’arte o il teatro appaiono chimere, soprattutto in una società votata alla superficialità, che scambia teatro con animazione, e arte con piattaforme.

Franco Basaglia diceva (in Conferenze Brasiliane, 1979): “L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre un’azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare”.

Solo memorie di un antico passato che, in ogni caso, era un fenomeno marginale rispetto all’insieme della società? In Storia della follia nell’età classica, Michel Foucault descrive la fondazione dell’Hôpital Général di Parigi, nel 1656, e specifica che “in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso”. Se Oltralpe si accomunavano “poveri e disoccupati, corrigendi e insensati”, già nel 1575 Elisabetta I d’Inghilterra prescriveva “la costruzione di houses of correction… per la punizione dei vagabondi e il sollievo dei poveri” – laddove il “miserabile, a un tempo, [è] un effetto del disordine e un ostacolo all’ordine”. Anche in Italia, a partire dall’età classica, nascono strutture simili, spesso rette da ordini ecclesiastici, e nelle quali si era internati con provvedimenti diversi, a volte sulla base della semplice domanda della famiglia.

Costrizione, repressione, spersonalizzazione e annichilimento che, in tempi più moderni, si sono ottenuti anche attraverso l’elettroshock. Solo un triste ricordo?: mai farsi illusioni. Leggendo Il Manifesto, apprendiamo infatti che, secondo la ricercatrice Kari Ann Leiknes, nel 2012, tale pratica ‘medica’ era ancora largamente in uso negli Stati Uniti e in Belgio, Norvegia e Australia. Negli Usa, in particolare, dove pare sia meno costosa di lunghe cure farmacologiche o della psicoterapia e, quindi, più vantaggiosa per le compagnie assicurative, interesserebbe circa 200 mila persone l’anno, mentre l’Italia – che si pavoneggia con la coccarda di Basaglia – secondo un’inchiesta dell’Espresso del 2018, vi sottopone “circa trecento persone ogni anno”. Mai dire ‘mai più’.

Trieste e Ferrara: due brevi Amarcord
Erano i ‘capelloni’ – con baffi incolti e cardigan lisi sui gomiti, trasandati, con i jeans sdruciti perché logori e non perché griffati, sempre arrabbiati, contestatari, con la mania di fare la rivoluzione, cantavano canzoni di protesta e andavano in manifestazione un giorno sì e uno anche – erano i giovani degli anni 70, quelli che hanno lottato contro l’istituzione totale: la famiglia, la galera, il manicomio.

A Trieste, dove Franco Basaglia porta avanti la sua rivoluzione, Giuliano Scabia – poeta del teatro – e Peppe Dell’Acqua – psichiatra – sono tra gli ideatori di Marco Cavallo, un cavallo di Troia al contrario (azzurro come il cielo, come le ali della libertà, come il celebre quadro di Franz Marc). Realizzato all’interno del manicomio, invece di restarvi imprigionato ne esce, oltrepassa la ‘soglia’ (come ricorda Scabia) portando con sé – nascosti nella sua pancia – la mattina di una domenica di marzo del 1973, i disegni, i pensieri, i sogni dei cosiddetti matti. Finalmente liberi, come semi sparsi tra gli abitanti radunati in strada – un po’ timorosi e un po’ sbigottiti ma presenti – quei desideri si mischiano ai corpi di una Trieste che, quel giorno, fa la storia (e per rivivere quei momenti, con il commento degli artefici di quella piccola/grande rivoluzione, esiste un filmato disponibile gratuitamente in rete: https://www.youtube.com/watch?v=LBp2ujRB4TQ).

In quel breve torno di tempo, tra il ‘73 e il ‘78, in molte parti di un’Italia che davvero credeva di poter cambiare se stessa e il mondo, si porta avanti la stessa battaglia – insieme a tante altre che ci consegnarono il nuovo diritto di famiglia, la legge sul divorzio e quella sull’interruzione volontaria di gravidanza.

Nel suo libro Teatro in esilio. Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo, Horacio Czertok scrive: “Un luogo dove il rapporto tra teatro e psichiatria è stato sempre critico è l’accademia: a lungo ha disconosciuto il senso e l’utilità del teatro come veicolo nell’ambito psichiatrico. Tutt’al più gli attori erano tollerati come intrattenitori. Da una parte il sistema di potere costituito da amministratori, psichiatri e il loro braccio armato, gli infermieri, non solamente disconosceva queste capacità dell’arte ma rigettava qualsiasi intervento che diminuisse o appena confutasse il loro potere. Dall’altra, i teatranti assumevano atteggiamenti di sudditanza, sia a causa della propria ignoranza su molte delle capacità della propria arte, sia perché la stessa ignoranza generava riverenza verso quel potere a sua volta tanto ignorante quanto arrogante e perverso”.

Nel 1978 Cora Herrendorf e Horacio Czertok, i fondatori di Teatro Nucleo (in origine Comuna Nucleo) lasciano l’Argentina – ricordiamo che durante la notte del 24 marzo 1976 il Generale Videla, l’ammiraglio Massera e Agosti, per l’aeronautica, attuarono quel colpo di Stato che gettò il Paese in una feroce dittatura e provocò decine di migliaia di desaparecidos. Prima a Sassari e poi a Ferrara, Herrendorf e Czertok portano con sé i principi del proprio teatro che “identifica nell’essere umano di qualsiasi genere, etnia, età, classe sociale un possibile interlocutore”. È Czertok a continuare nel racconto: “Invitati da Antonio Slavich (allora direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Ferrara) per mesi lavorammo coi pazienti nei reparti ancora chiusi e nei cortili con un gruppo misto di pazienti, psichiatri e infermieri, e con un gruppo di studenti in città. Appena fu liberato un reparto, i giovani aspiranti diventarono attori e costruttori e vi installammo un teatro, che iniziò subito a programmare spettacoli e attività collegate: si ribaltava l’immagine del manicomio, da luogo da nascondere e al quale sfuggire a luogo… per conoscere e per stare insieme” (le immagini del ‘77 sono disponibili in rete: https://www.youtube.com/watch?v=0mLQAcCb5Bg).

Torniamo al presente.

Quando Čechov anticipò Basaglia: chiudiamo le fabbriche e apriamo teatri e musei
Nel 2018 mi è capitato di condurre un incontro con il pubblico sul tema del disagio psichico 40 anni dopo l’approvazione della cosiddetta Legge Basaglia. L’ho fatto a Prato, in un piccolo locale adibito a palcoscenico, Le Palace, accanto al Fabbricone, con un’aria di ritrovo a metà strada tra la cantina romana degli anni 60 e la Soho dei ‘70.

Ero stata invitata da Daniele Giuliani, che nella stessa serata portò il suo Memorie dal Reparto N° 6, tratto da un racconto di Čechov.

Daniele, lo incontro nuovamente a Lucca, in uno dei rari pomeriggi in cui ci è consentito sederci al tavolino di un bar – quasi fossimo matti o reclusi a cui è concessa un’ora d’aria dal potere coercitivo che, attualmente, con la scusa della nostra sicurezza, ci sta privando della vita. E mentre discorriamo mi viene in mente che sarebbe tempo che i sindacati pretendessero, invece della cassa integrazione per operai e impiegati, che tutti si torni al lavoro. Oppure, se proprio si volesse proseguire sulla strada suicidaria dei lockdown, di chiudere le aziende produttrici di merci per un intero mese e aprire teatri e musei, scuole e università, gallerie e studi per dedicarsi tutti insieme a immaginare quale mondo vorremmo, domani, confrontandoci oggi con i prodotti immateriali della cultura e delle arti. Utopia? Anche in questo bisognerebbe tornare a Basaglia, a fare nostre le sue parole nella pratica quotidiana: “L’uomo ha sempre questo impulso, di dominare l’altro; è naturale che sia così. È innaturale quando si istituzionalizza questo fenomeno oppressivo. Quando c’è un’organizzazione che, approfittando dei problemi contraddittori, crea un circuito di controllo per distruggere la contraddizione, assolutizzando i due poli della contraddizione ora in un modo ora nell’altro. Noi rifiutiamo questo discorso. Noi diciamo di affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia, e affrontando la vita noi pensiamo di fare la prevenzione”.

Attore, regista, direttore artistico-pedagogico di Sfumature In Atto, associazione culturale che si occupa di teatro – Daniele Giuliani si è formato proprio con Teatro Nucleo, e con lui chiacchieriamo della sua esperienza, prima, come allievo di Cora Herrendorf; poi, con la Cooperativa Arca di Firenze, con un progetto di teatro nei percorsi terapeutici, denominato Contro Attacco Teatro; e infine sul palco come interprete di Memorie dal Reparto N° 6, testo che ha la ferocia della denuncia e la poesia della verità.

Daniele Giuliani: «Premessa. Fu grazie a psichiatria democratica che i gruppi teatrali entrarono nei manicomi negli anni 70 – sia come attività riabilitativa sia, soprattutto, per destabilizzare l’istituzione manicomiale. Intuizione geniale che ebbe grandi effetti. Per quanto riguarda il mio percorso di formazione con Cora, in particolare, intorno al 2006 arrivai al centro per l’Attore Sciamano, dove mi nutrii di questa visione del fare teatro in contesti diversi. Per loro era un’istanza politica quella di uscire dal luogo teatro. Io mi sono reso conto della valenza politica del fare teatro in spazi altri solo in un secondo momento. Ciò che mi ha maggiormente colpito è che se il teatro abita altri luoghi, diventa un contenitore per vissuti, emozioni, pensieri, che lì si straformano – destabilizzando, quindi, anche le dinamiche che oggi sono proprie di un Centro di salute mentale. I muri esistono ancora ed è difficile abbatterli… forse basterebbe scriverci sopra! [Ride.] Il teatro, però, non va confuso con la terapia, che va portata avanti da chi abbia fatto un percorso di studi adeguato in tal senso. Se il teatro si inserisce in un contesto terapeutico è un percorso parallelo con tutte le sue specificità. Ciò che mi colpì di Teatro Nucleo e che mi ha cambiato profondamente fu il suo approccio etico al fare teatro: ossia la consapevolezza che, quando si lavora in determinati contesti, non si sta lavorando con attori. Mai cadere in questa trappola. Le parole hanno un peso: chiamare attori delle persone che hanno incontrato il teatro per caso, o che stanno vivendo un’esperienza teatrale, secondo me è un errore. Teatro Nucleo è essenzialmente un luogo dove si fa ricerca e, ovviamente, la si fa sull’attore, mettendo in discussioni se stessi, le proprie motivazioni, i propri limiti anche a livello di energie personali: a ognuno di noi, quindi, era richiesto di trovare le ragioni del proprio fare, e anche del perché operare con persone con disagio psichico o disabilità. Ma per entrare nel proprio inconscio e trovare una voce che sia organica occorre tempo».

Può raccontarci la sua esperienza all’interno dei Centri di salute mentale e con la Cooperativa Arca di Firenze?
D. G.: «A livello istituzionale non esiste una legge che vincoli gli operatori a portare avanti progetti di musico, teatro o arte-terapia. Quindi, esiste un vuoto normativo che può essere riempito dalla volontà, in tal senso, delle Aziende sanitarie locali. In alcune regioni o territori, quindi, esistono progetti, bandi, idee al riguardo; altrove, vi è il nulla. Se si fa coincidere l’essere con il fare, ciò che si fa ha un significato esistenziale e questa è la base del mio pensiero e della mia azione. Personalmente sono stato fortunato perché quando ho cominciato a lavorare in questo campo, il Direttore del Centro di salute mentale fiorentino era uno psicanalista, oltre che uno psichiatra, e comprese bene il senso del fare teatro in quel contesto: era convinto che non si possa ‘curare l’anima’ solamente con i farmaci. Ebbi, quindi, un interlocutore valido a livello istituzionale, così come la Cooperativa Arca mi fu di validissimo supporto. Al contrario, spesso, si preferisce non andare in profondità, si preferisce fermarsi – a livello istituzionale – al ‘diamogli qualcosa da fare, a queste persone’. Questo rischio era già stato individuato da diversi membri di psichiatria democratica, ossia quello di trasformare i Centri di salute mentale in parchi gioco per adulti improduttivi. Al contrario, come ho già detto, il teatro deve affiancare gli operatori in un percorso riabilitativo grazie alla sua specificità che, dal Novecento in poi, ha portato gli attori a guardarsi dentro e a riflettere su quale fosse la loro pratica, moltiplicando così i nostri strumenti. Se facciamo il paragone con un artigiano, l’attore ha un bagaglio di attrezzi, che può utilizzare anche in questo ambito – dal lavoro sul corpo a quello sul linguaggio o nello spazio – ed è questo ciò che faccio e ho fatto con i progetti portati avanti con la Cooperativa Arca».

Nel 2018 ha messo in scena Memorie dal Reparto N° 6, tratto da un racconto di Anton Čechov, che affronta il tema della salute mentale da un punto di vista molto critico rispetto all’istituzione manicomiale e alla cosiddetta pazzia. Come nel pensiero di Foucault o in Van Gogh il suicidato della società di Artaud, la follia è considerata forma di esclusione dettata dalle regole della società stessa. Come lavorò su quel testo?
D. G.:
«Il testo dal quale partimmo anticipava molte idee di psichiatria democratica e dello stesso Franco Basaglia, unite alla capacità descrittiva propria di Anton Čechov. Sebbene non abbia personalmente visto la reclusione dell’istituzione totale, le dinamiche psichiche becere o di potere – come il guardiano che picchia il paziente o gli ruba i soldi o lo tratta come un ‘deficiente’, passatemi il termine – le ho sperimentate perché, prima di dedicarmi a tempo pieno al teatro, ho lavorato come operatore in salute mentale. Ovviamente ho visto quanto descritto dall’autore russo traslato in forma contemporanea e, quindi, un po’ addolcito, ma di fondo molte cose sono rimaste immutate. Entrare, di conseguenza, nel personaggio fu facile, per me, perché avevo vissuto quelle esperienze e, sebbene non sia più un operatore, continuo a frequentare le istituzioni con i laboratori di teatro. Non è la stessa cosa dell’istituzione totale o della privazione della libertà del manicomio, ma alcuni odori li ho annusati anch’io e, quindi, il lavoro con Cora – che ne firmò la regia – scivolò via con naturalezza. Il teatro per me, come per Barba (Eugenio, regista e fondatore dell’Odin Teatret, n.d.g.), è una possibilità per abbattere delle barriere, per creare degli elementi di trasformazione. Quello spettacolo, che era essenzialmente un monologo, diede la possibilità a molti spettatori di riflettere. Ricordo una replica presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, laddove in precedenza sorgeva il manicomio e che fu anche la prima sede di Teatro Nucleo. In quell’occasione, proiettammo anche il video L’attore in manicomio, che era stato girato in quegli spazi quarant’anni prima. Molti tra gli studenti presenti erano stupiti perché non sapevano nemmeno che, prima, ci fosse un manicomio là dove sorgeva la facoltà. A volte, degli psichiatri, venuti a vedere lo spettacolo, mi dicevano: “È cambiato, ma non è cambiato”. Non a caso avevamo scelto, per comporre la drammaturgia, testi che sapevano parlare all’oggi: gli addetti ai lavori per primi riconoscevano che quelle dinamiche sussistono. La superficialità della società che circonda il medico, protagonista del racconto, la porta a rinchiuderlo semplicemente perché trova interessante ciò che gli racconta un paziente. Un testo che dovremmo tutti quanti rileggere».

E a proposito del dialogo (im)possibile medico/paziente, sano/malato, libero/recluso, organico/alienato, ecco le parole di Franco Basaglia: “Voce confusa con la miseria, l’indigenza e la delinquenza, parola resa muta dal linguaggio razionale della malattia, messaggio stroncato dall’internamento e reso indecifrabile dalla definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell’invalidazione, la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire. La psichiatria non è stata che il segno del sovrapporsi della razionalità dominante su questa parola che le sfuggiva e la conferma – necessaria a questa razionalità – di una comunicazione impossibile” (in Follia/Delirio in scritti, 1982).

Oltre al teatro, l’arte
Dato che politica e sindacati non paiono accorgersi dell’importanza delle arti nella vita quotidiana degli individui e, anzi, ne hanno ormai decretato l’inutilità, squalificando i lavoratori del settore in serie B, mentre un regista, un poeta o un compositore è valutato meno di un operaio della ex Fiat il cui stipendio è, però, pagato dalle garanzie del Mef del Conte Bis (sebbene la Fca fosse già una società con sede legale e fiscale all’estero e, quindi, non più italiana); così come la sua cassa integrazione sia a carico della fiscalità generale e, quindi, del succitato regista, poeta o compositore; nella decina di giorni di riapertura dei musei, in Toscana, ho potuto visitare il Lu.C.C.A. Center of Contemporary Art. In una tra le poche realtà effervescenti della cittadina murata (in ogni senso), si esponevano i lavori del Laboratorio riabilitativo Il filo magico (del Centro di Salute Mentale Adulti di Lucca – ASL Nordovest, in collaborazione con l’associazione Archimede).

Un laboratorio che ha operato per una ventina d’anni e che è stato recentemente chiuso, ma che ha lasciato per alcuni giorni (dal 2 al 19 febbraio) una serie di lavori in mostra, così da far conoscere questa esperienza artistica e riabilitativa a una platea che, spiace dirlo, appare sempre più ignorante e, quindi, acritica; ma anche per dire addio a un lungo e fruttuoso percorso che si è estinto – come molte iniziative similari – anche per colpa di una società che, dopo la rivoluzione basagliana e gli anni 70, si è via via sempre più rinchiusa fino all’attuale regime asfittico pandemico.

La mostra – Dal pennello al tessuto – è stata l’ultimo tassello di un progetto nato a Lucca nel 1998 su proposta dell’esperta Anita Arrighi, in cui si applicava la metodica “della mediazione espressiva che permette l’espressione del proprio sé e la proiezione esterna dei sintomi del disagio e dello stesso contenuto patologico… attraverso il recupero o l’acquisizione di manualità (cucito, ricamo, eccetera)… e la possibilità di attivare, attraverso colori, forme, composizioni e materiali, profondi significati simbolici, legati alla vita affettiva e al recupero di ricordi” affinché “le espressioni cliniche del disagio [siano] elaborate e trattate in un ambiente libero, ma terapeuticamente protetto, e quindi incanalate in circuiti relazionali orientati al riequilibrio e al recupero di potenzialità e capacità inibite dal processo patologico”. Non vi preoccupate: la mostra ha chiuso per via delle restrizioni sanitarie e non la vedrà più nessuno – mentre operai e impiegati continueranno a produrre futilità inquinanti per la nostra società dei consumi usa e getta.

Per capire di cosa si stia parlando e lasciare almeno una testimonianza scritta, sono andata al Centro di Salute Mentale Adulti di Lucca – la cosiddetta Casina Rossa che si vede percorrendo la circonvallazione appena all’esterno delle Mura – dove ho incontrato Alessandra Fava, uno dei quattro educatori professionali, che da vent’anni e oltre è in prima linea in questo campo.

Come nasce questa realtà lucchese e quali attività artistico-espressive vi svolgete?
Alessandra Fava: «La riabilitazione era già presente all’interno del manicomio di Maggiano, dove si svolgevano alcuni laboratori che, in seguito, sono stati portati sul territorio. Tra questi, La tela di Penelope, che utilizza i telai di un’ex azienda di Maggiano, che siamo riusciti a recuperare e a rimettere in sesto, e che oggi sono visibili e in funzione nella sede della cooperativa sociale, dietro a via dell’Anfiteatro, nel centro di Lucca. Dal 1998 a Tempagnano, a casa dell’esperta, Anita Arrighi, si trovava, invece, il laboratorio Il Filo magico, che ha dato origine all’esposizione al Lu.C.C.A. Center, dove si sono realizzati lavori originali tra i quali arazzi e quadri in stoffa, che sono stati esposti anche in diverse mostre. Iniziative, tutte, molto importanti per la realtà lucchese. Purtroppo, come tutte le attività riabilitative, anche questa si è andata riducendo negli anni per mancanza di fondi. E non solo. Sono intervenute anche scelte dall’alto. La psichiatria è cambiata nei suoi orientamenti e, in base ai primari, si è data maggiore o minore importanza a questo genere di percorsi rispetto a quelli prettamente sanitari. Alcuni anni fa, portavamo avanti laboratori musicali, di pittura, scultura, teatro – e tanti altri percorsi riabilitativi. Attualmente sono rimasti solo quattro laboratori, interni a questa struttura o sul territorio. Uno di ceramica, sospeso anni fa e ripreso recentemente, anche per l’interesse manifestato dai nostri utenti; la sartoria; la succitata Tela di Penelope; e il laboratorio multimediale, La bottega digitale – con il quale abbiamo realizzato il fotolibro di una fiaba per bambini (e non solo); un racconto fantastico pensato per i social, intitolato Il diario di Rosa Shocking (con una pagina dedicata su FB); e attualmente stiamo creando un fotoracconto che sarà fumettato e, speriamo, inserito nel prossimo Lucca Comics, Covid permettendo».

Quale ruolo svolgono gli operatori e quale i professionisti all’interno di questi percorsi riabilitativi?
A. F.: «Diciamo che l’input viene dallo psichiatra che ritiene utile un progetto di inserimento che miri alla socializzazione, soprattutto per persone troppo isolate. Il paziente, quindi, arriva al nostro Centro diurno e noi educatori lavoriamo con lui o lei in alcuni ambiti specifici, quali la pulizia personale; la gestione economica – perché ci sono persone che hanno solo una pensione di invalidità (nel 2020 era di 286,81 euro mensili, n.d.g.) e, magari, la spendono in un giorno; e l’autonomia, soprattutto a livello di spostamenti sul territorio ma anche di attività quotidiane. Dopodiché, se notiamo anche minime competenze o un interesse, proponiamo una serie di attività espressive che servono a sviluppare competenze, a lavorare insieme agli altri – senza mirare a un inserimento lavorativo. In questi laboratori chiediamo l’intervento dei nostri esperti, che non sono arteterapeuti, non hanno questo titolo, ma sono professionisti che insegnano le tecniche di cui hanno padronanza».

L’offerta sempre più esigua di attività che non siano finalizzate al reinserimento lavorativo dipende anche da un modo diverso di vedere il disagio psichico da parte della società?
A. F.: «Certamente. Banalizzando potremmo dire che ‘non siamo più di moda’. La coperta, che è sempre più stretta, è stata spostata altrove. Su Lucca, di Centro diurno per il disagio psichico, c’è solo questo. Ci hanno promesso a più riprese nuovi finanziamenti, ma non sono mai arrivati. L’interesse da parte della politica per questa problematica, trascurata anche in passato, mi sembra scomparso del tutto. Forse è stato indirizzato verso la tossicodipendenza o la disabilità, non saprei dirlo. Dopo la chiusura dei manicomi e, qui in zona, di quello di Maggiano, si sono organizzate tantissime attività, strutture, case-famiglia, ma la gente nemmeno lo sa. Siamo scomparsi dalla vista e dalla consapevolezza».

Come funzionano i progetti di inserimento lavorativo?
A. F.: «Anche questo settore avrebbe bisogno di essere incentivato ma non lo è. Anzi, i fondi mancano proprio. Noi continuiamo a definirle ‘borse lavoro’ perché in passato erano chiamate così, ma stiamo parlando di soli 100 euro mensili, 150 quando sono tanti. Una cifra davvero esigua. Tante realtà anche profit, come distributori o supermercati, e poi scuole, e i Comuni di Lucca e Porcari, impiegano i nostri utenti, li inseriscono nella loro forza lavoro perché gli stessi sono retribuiti dalla Asl. Ma dire che sono pagati è una ‘parola grossa’. Perché il contributo di 100 euro mensili per un lavoratore non può che essere simbolico. E sempre noi provvediamo all’assicurazione e a tutte le coperture di legge. Del resto l’utente psichiatrico deve per forza fare un percorso. Se esce dalla crisi ed è sufficientemente compensato (sta sufficientemente bene in quanto segue una cura farmacologica, n.d.g.), può venire al Centro diurno per un percorso riabilitativo, di ricostruzione del sé, e di socializzazione. Poi, almeno in teoria (perché la pratica non è sempre conseguente), dovrebbe reinserirsi anche nel mondo lavorativo. Il progetto rieducativo in quest’ultimo campo è molto importante perché obbliga il paziente a rispettare degli orari, delle regole igieniche, a spostarsi sul territorio, a integrarsi socialmente. Ma dovrebbe essere remunerato anche in maniera adeguata – a mio parere. Bisogna tenere presente che stiamo parlando di adulti, che sopravvivono con una pensione minima. Il reddito di cittadinanza ha sollevato tanti tra i nostri utenti, anche giovani, da situazioni difficilissime, e se sarà tolto non so cosa accadrà».

Alcune opere del Filo magico sono esposte in questi giorni al Lu.C.C.A. Center. Com’è nata la vostra collaborazione?
A. F.: «Grazie alla conoscenza diretta. Michela Cicchiné (addetta stampa del Lu.C.C.A. Center, n.d.g.) conosceva sia Anita Arrighi, la nostra esperta, sia il dottor Marchi, il nostro ex primario. Di conseguenza, lo spazio espositivo non ha posto alcuna difficoltà all’idea della mostra. Al contrario, ci ha letteralmente aperto le porte. Tra l’altro, colgo questa occasione per ringraziare tutti per l’accoglienza, e per aver inserito la mostra in calendario. Purtroppo avrebbe dovuto svolgersi a novembre ma, a causa della pandemia, c’è stato questo slittamento. Personalmente ci tenevo molto perché giungeva alla fine di un lungo percorso ma siamo stati sfortunati e il Lu.C.C.A. Center ha dovuto nuovamente chiudere. Del resto, negli anni passati si facevano tanti eventi anche a livello cittadino, con la collaborazione del Comune o della Provincia. Ma attualmente non c’è più questo tipo di indirizzo: eppure la riabilitazione dovrebbe ricomprendere tanti aspetti, non solamente quello sanitario».

L’istituzione totale non ha più bisogno di muri, bastano i like
Difficile, per noi, chiudere questa lunga riflessione sul disagio psichico in tempi di pandemia. Quando si è richiusi ‘per il nostro bene’ all’interno delle mura domestiche che, spesso, invece di proteggerci, ci costringono a convivenze forzate con uomini violenti; a subire, privi di strumenti adeguati, le nostre paure o fragilità; assillati da una tivù e dai cosiddetti esperti che debordano nel terrorismo psicologico per uno share maggiore, o la vendita di una copia in più dell’ultimo libro. Quando si è sopraffatti da un potere unidirezionale e coercitivo che ci riduce a numeri; schiavi dei social, dove non si attua il dialogo ma l’esternazione dei peggiori istinti protetti dall’assenza dei corpi, da un sistema di anonimato che ci degrada ad algoritmi inconsapevoli della Matrix che si sta costruendo intorno a noi; cosa ci resta? Matti noi o folle questo sistema che mira, ogni giorno di più, a operare scelte di ingegneria sociale aberranti quanto il manicomio?

Tornando all’abbandono delle istanze libertarie ma anche di pratiche e impegno propri degli anni 70, a quell’appuntarsi la coccarda di Basaglia dimenticando che la legge 180 prevedeva percorsi di recupero e reinserimento – attuati solo parzialmente – il collega Roberto Rinaldi su Articolo 21, in un recente articolo, riporta la denuncia di Franco Rotelli (psichiatra e collega di Basaglia): “Ma se poi non riusciamo a citare il nome di alcun Presidente di Regione che, in questi decenni, si sia segnalato per l’attenzione nell’organizzazione di politiche e di servizi per la salute mentale, registrare tutte le inadempienze nell’implementazione di quella legge è conseguenza inevitabile”.

‘E allora cosa ci resta’, mi domandavo. Forse, ancora una volta, l’insegnamento di Franco Basaglia per costruire buone pratiche – perché non è mai troppo tardi per credere che un mondo migliore sia ancora possibile: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere” (Franco Basaglia, Che cos’é la Psichiatria, Baldini Castoldi, 1967).

Libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber. Buon ascolto! https://www.youtube.com/watch?v=nulKUZ1sWlA.

(Potete trovare la prima parte dell’inchiesta, con le testimonianze di Elena Sorbi per la messa in scena del Macbeth con i pazienti della Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria di Casale di Mezzani, e dei Chille de la Balanza nell’ex manicomio di San Salvi, su www.IntTheNet.eu).

Nella foto: Daniele Giuliani in Memorie dal Reparto N° 6. ©www.Mantoz.it (tutti i diritti riservati).