10687071 957330404293047 444392142849283674 NSei spettacoli a contendersi in singolar tenzone il premio di Forever Young 2018: 8 mila euro e l’accompagnamento alla distribuzione per il vincitore

Immerso nella campagna tra Reggio nell’Emilia e Modena, l’ospitale del XVI secolo ubicato sulla via Francigena – che nel Medioevo univa Canterbury a Roma – è oggi sede di produzioni e residenze. Entrare nel suo chiostro, cenare nel refettorio tra fratini e atmosfere claustrali, dormire nelle stanze austere e dai soffitti alti che rimandano alle celle che accolsero Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, è un’immersione totale in un piccolo universo creativo che mescola artisti, operatori, critici, spettatori e tecnici. E mentre si vaga tra sale, camerate e uffici la sensazione che si prova è di trovarsi davvero nel cuore dell’Europa, in uno di quei poli culturali dove lo scambio e il confronto generano idee, dove il dialogo tra arti ed economie virtuose può ancora trovare un punto d’incontro.

Ma veniamo al Bando Forever Young e agli spettacoli selezionati per la due giorni finale.
Il Drago d’Oro apre le danze con un testo che sembra più adatto come copione per un film di Altman che come drammaturgia per uno spettacolo teatrale. La presunta contemporaneità del testo (problematiche – troppe – già trattate ampiamente in tanti altri lavori) si dovrebbe rispecchiare nella forma scenica che, al contrario, si rivela in certa misura di tradizione. E questo, nonostante la scelta di recitare sia didascalie sia battute (che, più che restituire un senso di straniamento, appesantisce la resa finale -come in Natale in Casa Cupiello di Latella); il mix di surreale e reale; l’elenco degli ingredienti delle varie ricette (stilema ormai di moda soprattutto in letteratura); le luci stroboscopiche per il momento di maggiore tensione (visto recentemente anche nell’ottima versione teatrale di Ci scusiamo per il disagio); e gli evidenti titoli di coda filmici al posto degli inchini sugli applausi. Una recitazione non convincente per un testo eccessivo, che quasi scivola nella sgradevolezza.

A seguire, Schianto. La scenografia, essenziale e funzionale, colpisce per la sua duttilità, ossia per la capacità di rendere la dimensione onirica e la frammentazione psicologica dei personaggi e, nel contempo, fare da sfondo alla quotidianità (grazie anche all’abile uso delle luci). I monologhi, quanto i dialoghi, sono originali (e questo sarebbe un pregio in sé, in quanto la Compagnia firma anche la drammaturgia della propria opera nel miglior solco del teatro contemporaneo, da Carrozzeria Orfeo a Punta Corsara), insieme poetici e ironici, e in grado di sfiorare diverse corde e un certo numero di temi, senza mai appesantirsi con tentativi filosofici spuri né scivolare nella colloquialità. Un testo ben calibrato tra comico e tragico, ottimamente interpretato, interessante, con un finale asciutto (come se ne vedono pochi). Un’eccellente prova registica a coordinare un cast affiatato, senza sbavature, e una Compagnia che merita tutta la nostra attenzione (non a caso, conquisterà la menzione speciale).

Ultimo spettacolo della serata, X. Drammaturgia tipicamente anglosassone, adatta al cinema come alla televisione o al palcoscenico, priva – anche a livello registico – dell’unicità del linguaggio teatrale. Un testo che rimanda a trame e atmosfere cult del genere sci-fi, da Solaris a Moon passando per Sfera. Bravi gli attori a ricreare la sensazione di claustrofobia e crescente distacco dalla realtà (eccellente l’interprete di Gilda). Dopo il suicidio del comandante (che chiuderebbe il cerchio con la spiegazione della X impressa sulla parete di fondo), il testo inizia a girare un po’ a vuoto con ulteriori rimandi (ad esempio, a 2001: Odissea nello spazio). Da notare che gran parte della bellezza – estetica e linguistica – della fantascienza da sempre deriva dal côté visuale che, qui, ovviamente manca.

La seconda giornata si apre con The Dead Dogs, (di cui scriveremo più avanti e più approfonditamente visto che vincerà il Bando).
A seguire, Growth (di Luke Norris, che si è aggiudicato il Fringe First Award a Edimburgo). Testo tragicomico, veloce, ottimamente recitato dai tre attori in scena, con azioni veloci che fanno progredire la storia su binari prevedibili (i topoi sono molti) ma credibili, e che restituisce d’immediato le situazioni e i personaggi nei quali si imbatte il protagonista, senza mai creare confusione (per esemplificare, seppure interpretato dallo stesso attore, si distingue senza problemi il membro del gruppo d’autoaiuto in fase terminale dal fratello imbarazzato e imbarazzante che dovrebbe fare compagnia al protagonista nella sala d’aspetto, prima dell’intervento). Quello che manca è, al contrario, un’idea di regia che vada aldilà dell’ottima direzione degli attori e dia un taglio più personale a una serie di azioni e personaggi molto, forse troppo, British. Perché un tappeto verde? Perché, ad esempio, non un ring, visto che quelli che si svolgono in scena sono, in realtà, incontri/scontri, che permetteranno al protagonista di crescere? Anche le luci piuttosto fisse e la mancanza di musiche o rumoristica sembrano scelte perfette per il Fringe, meno nel caso di una messinscena teatrale (detto questo, testo e prova attorale meriteranno anche loro, e giustamente, la seconda menzione speciale).

Ultimo spettacolo, Ovid Hotel, di matrice chiaramente filmica dove il taglio grottesco (genere difficilissimo, che deve mantenersi in delicato equilibrio tra estetica del brutto e sublime) e alcune scene rimandanti a titoli cult, da Todo Modo (capolavoro in parte slabbrato del binomio Petri/Volonté) a Non si uccidono così anche i cavalli?, rendono complessa una messinscena che non può dirsi certamente fluida. Sebbene dotato di un input iniziale interessante, lo squilibrio tra le scene e all’interno delle stesse, e un vago girare a vuoto dei dialoghi appesantiscono uno spettacolo di per sé già molto difficile, dove i tipi (alcuni, come il diversamente abile, forse tagliato e cucito sul personaggio di Di Caprio in Buon Compleanno Mr. Grape) non evolvono ma precipitano in un vortice di disperazione parossistica.

Ed eccoci al vincitore, The Dead Dogs, premiato con la seguente motivazione: “un testo scelto con coerenza rispetto alle linee guida del bando, che affronta il tema delle relazioni irrisolte all’interno della famiglia e della violenza latente che in generale serpeggia nella società contemporanea. Lo spettacolo, pur con ancora ulteriori potenzialità di crescita, già mette in evidenza una regia nitida e compiuta e ha come punto di forza un gruppo di attori e attrici di talento, soprattutto nella capacità di sostenere i ritmi e i ‘non detti’ tipici della scrittura di Fosse”.

E allora partiamo subito dall’autore e dal testo. Jon Fosse è un autore a metà strada tra Ingmar Bergman (di cui non possiede, però, la profondità per affrontare i temi universali) e Harold Pinter (del quale non riesce a raggiungere quella sospensione magica che, dietro la banalità, cela la tragedia). Fosse à la Fosse è godibile per la sua capacità – tutta linguistica – di costruire testi dove la ripetizione delle banalità quotidiane e l’eccesso di pause e silenzi rimandano all’incapacità di esprimere pensieri e sentimenti autentici (se e dove ne esistano). E qui sorge il primo dubbio alla messinscena: perché riempire i vuoti (nella prima parte) di rumori? I silenzi e le pause, come quelli pinteriani, vanno lasciati tali perché divengano il gorgo nel quale affogheranno i protagonisti. Passando al testo (che, curiosamente, è stato scelto anche come prima produzione del Metastasio di Prato per il progetto Davanti al pubblico 2018, presentato in anteprima a Inequilibrio e a Kilowatt e che debutterà in stagione al Magnolfi di Prato), The Dead Dogs (o Cani Morti), non è una novità. E non ha avuto finora un grande successo se, come scriveva su The Guardian, già nel 2014, Michael Billington: “The big difference is that the studied banalities in Pinter’s dialogue are fraught with dramatic tension, whereas here they simply seem to indicate a reluctance to communicate” (liquidando il testo di Fosse come incapace di creare un’autentica “tensione drammatica”). E invero questo testo pone due grossi problemi. In primis, le immagini proiettate con cani coccolati (nella prima parte) e sottoposti a violenze (nella seconda) sembrano ridondanti e spostano l’attenzione sull’eccessivo o sulla mancanza di amore verso l’animale. Sarebbe questo il messaggio di Fosse? A noi, nel caso, parrebbe alquanto banale. Il secondo problema è, escludendo le immagini, capire quale sia questa tragedia senza dramma. E l’unica che ci pare di ravvisare è quella di un sociopatico (incapace di rapportarsi socialmente e affettivamente con la società che lo circonda) e che trova nell’omicidio la valvola di sfogo per esprimersi finalmente e, forse, uscire dalla propria apatia semi-autistica (ovviamente, non in senso letterale). Ma una lettura così devastante e sgradevole del protagonista (non a caso, mai nominato) avrebbe ovviamente bisogno di una lettura registica altra. E veniamo al finale, insieme didascalico ed esplicativo, della durata di circa venti minuti (quando lo spettatore ha ormai compreso la trama) e che utilizza anche il cliché del preregistrato per esprimere i pensieri dei protagonisti in scena. A nostro parere less is more, e di fronte alla sepoltura del cane e all’arrivo delle ambulanze e della polizia, a tragedia compiuta, il dramma non ha bisogno di dilungarsi in spiegazioni spurie. Un finale incisivo e aperto è sempre più raro a vedersi, eppure è il pugno che può colpire davvero allo stomaco lo spettatore e farlo riflettere – che non lo rimanda a casa con le risposte preconfezionate e le certezze del cinema a stelle e strisce.
Eccellente la recitazione straniata del protagonista e del suo amico d’infanzia (i loro, i dialoghi più convincenti e maggiormente in sintonia con l’autore), eppure disomogenea rispetto a quella realistica della madre (che dà, comunque, un’ottima prova attorale ma su un altro registro). Bella la scelta della ghirlanda di palloncini: la scena in cui alcuni personaggi vi siedono sotto e che rimanda a quella festa che non si terrà, è insieme straniante ed emotivamente destabilizzante. L’uso delle panche, al contrario, sebbene funzionale, risulta già visto e, nonostante limiti e delimiti spazi e rapporti, dimostra poca originalità.
Un lavoro da prosciugare, secondo noi, puntando di più sulle luci e su un accompagnamento musicale forte nel momento dell’omicidio/sepoltura (soluzione peraltro riuscita e tra i momenti migliori dell’intero spettacolo). Una buona base – in special modo attorale – sulla quale occorrerebbe lavorare ancora.

Nel complesso questa edizione di Forever Young ha mostrato alcune contiguità tra i lavori proposti. In primis, la presenza di Compagnie che propongono lavori corali (dai tre fino ai nove interpreti in scena), rifuggendo dai monologhi (economicamente più sostenibili ma ormai sfibranti, per lo spettatore, nella loro sovrabbondanza). In secondo luogo, una predilezione per testi sulla disgregazione della società contemporanea, su una generazione x che sembra ormai sull’orlo di una crisi di nervi (eccettuato Growth dove il finale aperto ma fondamentalmente ottimista ben si inserisce nell’happy ending da film neorealista British). Una generazione che, peraltro, un po’ infastidisce con questo suo piangersi addosso pur continuando a vivere in una società del benessere dove, è vero, bisognerebbe riconquistare diritti – lottando però non più di quanto abbiano fatto le generazione del Dopoguerra o degli anni Sessanta (le prima soprattutto a livello di sopravvivenza, le seconde per affermare diritti economici e sociali). E infine (almeno in Il Drago d’oro, X e Ovid Hotel), una certa predilezione per un linguaggio e una costruzione scenica più filmici (e/o televisivi) che non teatrali.

Gli spettacoli sono andati in scena nell’ambito di Forever Young:
La Corte Ospitale

via Fontana, 2 – Rubiera (RE)

giovedì 12 luglio, ore 18.00
Sala Sassi
Il Drago d’Oro
di Roland Schimmelpfennig
con Emanuele Cerra, Clara Setti, Marta Marchi, Silvio Barbiero e Paolo Grossi
regia Toni Cafiero
Compagnia Evoè Teatro

ore 19.45
Sala Fuoco
Schianto
drammaturgia collettiva
con Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso e Fabio Zulli
ideazione e regia Stefano Cordella
Compagnia Oyes

ore 21.00
Sala Teatrale
X

di Alistair MacDowall
con Celeste Gugliandolo, Angelo Campolo, Eugenio Papalia, Francesco Natoli e Adriana Mangano
adattamento, regia, spazio scenico Simone Corso
Compagnia DAF – Teatro dell’Esatta Fantasia

venerdì 13 luglio, ore 10.00
Sala Sassi
The Dead Dogs
di Jon Fosse
progetto Thea Dellavalle/Irene Petris
con Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini, Federica Fabiani, Luca Mammoli e Irene Petris
Compagnia Dellavalle/Petris

ore 11.45
Sala Teatrale
Growth – Crescita
di Luke Norris
con Giulia Trippetta, Pavel Zelinskiy e Francesco Aricò
regia Silvio Peroni
Compagnia PierFrancesco Pisani

ore 13.15
Sala Bachi
Ovid Hotel
liberamente ispirato a The Lobster di Efthymis Filippou e Yorgos Lanthimos
con Emmanuele Bettari, Alice Conti, Francesca Gabucci, Loris De Luna, Fortunato Leccese, Luca Piomponi, Giselda Ranieri, Alice Spisa e Daniela Vitale
regia Giuliano Scarpinato
Compagnia Giuliano Scarpinato – Wanderlust Teatro

www.corteospitale.org