Spazio inchieste

Su Persinsala inauguriamo una nuova sezione dedicata agli approfondimenti giornalistici per indagare sempre di più il dietro le quinte del mondo del teatro: gli stati di crisi, le difficoltà lavorative, le nuove normative e le loro ricadute sul settore.

La scelta, che non ci è nuova – dato che sono almeno un paio d’anni che ci interroghiamo su cosa stia succedendo nel mondo teatrale italiano – è nata sia per decisione della redazione sia per alcuni fatti accaduti negli ultimi mesi in Toscana. Non tanto riguardo alle problematiche che ormai affrontiamo quotidianamente – Riforma del Fus, Codice dello spettacolo dal vivo, chiusura o snaturamento dei Festival, eccetera – quanto per alcune affermazioni che ho sentito fare a registi, attori e agli stessi critici in diverse occasioni pubbliche, che mi hanno portata a chiedermi qual sia il ruolo del critico oggi, quale il suo compito e quale il quadro nel quale opera effettivamente – aldilà dell’immaginario collettivo.

Il tutto è cominciato da un Convegno che si è tenuto oltre un anno fa, in cui ci sono stati colleghi che hanno accusato il mondo della critica online di pressapochismo, di creare una schiera di incompetenti che non avranno mai opportunità di lavoro (in un’Italia che tocca quasi il 40% di disoccupazione giovanile), e di autoimporsi articoli just on time – senza un editore alle spalle che lo imponga quale corrispettivo a un congruo stipendio. L’affaire – se così si può definire il mio lambiccarmi il cervello su tali affermazioni – è proseguito con il racconto di un altro collega che, recentemente, mi ha detto di aver fatto un incontro con il pubblico lucchese, prima della messinscena di uno spettacolo piuttosto complesso, al quale ha presentato, per discuterne, due recensioni della carta stampata (entrambe positive) e tre del web (tutte negative). È continuato con una collega che, siccome in privato spesso solleva dubbi sugli spettacoli che vede e poi ne scrive sempre bene, alla domanda sul perché lo faccia mi ha risposto di non sentirsi in grado di criticare un artista; mentre un altro collega mi spiegava come, in una presentazione, non sia il caso di criticare le scelte del direttore artistico per non offenderlo. E si è concluso (questo lambiccamento imbelle) con le considerazioni espresse in pubblico, durante un incontro, da un noto regista, il quale ha affermato – contraddicendosi egli stesso – che: 1. i critici non contano (e forse, vista l’affermazione nel suo complesso, non capiscono) niente e che, dato che alcuni scrivono bene del suo spettacolo e altri male, non comprende a chi dovrebbe dare retta e, comunque, l’importante è che lo spettacolo si venda (auspicio più che legittimo); 2. gli artisti sono fragili e i critici si divertono a (o, comunque, possono) distruggerli per il gusto di farlo; e 3. che lui era disponibile al confronto (e, quindi, stimabile per questo) quando la maggior parte dei suoi colleghi toglie la parola al critico se solo non gradisce una frase in un’intera recensione.

Cosa fare? Gettare la spugna e diventare ossequiosi e compiacenti a priori? Arrendersi all’idea che questo non è più un lavoro, dato che non dà la benché minima remunerazione e, quindi, in un regime capitalista, può considerarsi solo un hobby o un’attività di volontariato (nel qual caso, preferirei raccogliere fondi per Emergency)? Andare ai Festival e ricordarmi di scrivere qualcosa un paio di mesi dopo, se non ho altro da fare? Tornare alle riviste patinate sulle quali ho scritto – con incongruo stipendio – per anni, rimaneggiando i comunicati stampa e lottando con caporedattrice e direttrice per strappare, ogni tanto, qualche titolo un po’ graffiante? Buttare al macero i miei studi e autocensurarmi, dichiarandomi incapace di una critica seria perché il teatro non è una materia precisa come l’economia? Salvo poi scoprire che un keynesiano non andrà mai d’accordo con un freedmaniano e, mentre tutte le ricette del Fondo Monetario Internazionale impoveriscono fasce della popolazione sempre più larghe, appurare che non c’è un cervellone di economista che riesca a prevedere, e tanto meno a risolvere, le crisi.

Ecco allora la decisione di ripartire dal basso, chiedendomi chi sia il mio referente e, da questo punto, rispondere alle varie questioni poste più sopra per rilanciare la sfida.
Il referente di un giornalista, come di un critico, è innanzi tutto il lettore. Io devo onestà di pensiero a chi mi legge e decide, magari anche grazie a un mio suggerimento, di spendere venti o trenta euro sudati con il proprio lavoro per uno spettacolo teatrale. Oramai nell’editoria questo principio fondamentale di rispetto verso il lettore è andato perduto. Al giornalista è chiesto di adeguarsi alla linea editoriale, fino a rischiare il licenziamento se esprime idee diverse su un proprio social (chissà dov’è finita la libertà di pensiero e di espressione garantita dalla Costituzione e quella deontologica del giornalista), in quanto il lavoro intellettuale è soggetto alla compliance imposta a un qualsiasi impiegato. Questo cosa comporta, caro lettore? Che le inchieste sono diventate scomode, che ti sarà sempre più difficile informarti su inquinamento, energie alternative, diritti, guerre, bustarelle e malversazioni – in breve, sulla realtà dei fatti del mondo che ti circonda. E che, se leggerai una recensione su un cartaceo (che ottiene pubblicità da teatri e compagnie), a volte scoprirai che l’eccellente spettacolo che andrai a vedere, ti farà pentire di aver speso i tuoi soldi o dubitare del tuo stesso giudizio critico. E l’attore, regista o direttore artistico che sventola quella stessa recensione per scardinare il principio di competenza del critico, dovrebbe esserne altrettanto cosciente ponendosi almeno qualche dubbio. Tutto questo a cosa sta portando, del resto? Il continuo rincorrere i diktat degli inserzionisti conduce alla disaffezione progressiva dei lettori e, prima o poi, la diminuzione del numero dei lettori stessi comporta il venir meno dell’appeal di una testata nei confronti degli inserzionisti. Ma di questo che se ne occupino gli editori: gli online, quasi privi di entrate, almeno non debbono soffrire sui bilanci.

E veniamo all’accusa del just on time, dell’incompetenza e della proliferazione delle riviste online. Se in Italia sempre più cartacei chiudono ci sarà un motivo e se, grazie alle nuove tecnologie, è più facile comunicare, scrivere e pubblicare, dovremmo solamente essere felici di questa moltiplicazione di punti di vista che non restano più confinati alle cene con gli amici. Del resto, il miglior giudice è il lettore: se apprezzerà il lavoro, notandone l’onestà, la capacità di dargli strumenti di lettura, di suggerirgli percorsi di avvicinamento a un’opera o a un autore, dicendogli perfino che può aver ragione, a volte, a non capire o ad annoiarsi perché un certo spettacolo è davvero autoreferente o particolarmente lento o solo parzialmente riuscito, quel lettore ci seguirà. E sarà lui stesso a decretare o meno il successo della rivista, contribuendo alla sua scomparsa se smetterà di leggerla perché incompetente, ossequiosa e, quindi, a livello di informazione sostanzialmente inutile. Ma un articolo ha senso per il lettore se lo scrivo quando per lui è ancora possibile vedere uno spettacolo. Ecco, quindi, che il mio autoimpormi tempi stretti è basilare per un lavoro di critica. L’approfondimento da storico o filosofico, come l’inchiesta, possono – e devono – avere tempi di elaborazione più lunghi. Ma l’informazione è altro: è stare sul pezzo.

Per tutto quanto già scritto, credo si possa sorvolare sull’affermazione della collega che non ha le capacità per criticare un artista (se ammette davvero di non averle, forse sarebbe il caso che cambiasse mestiere), o del collega sul timore di offendere direttori artistici o organizzatori: avere dubbi fa parte del nostro, come del loro lavoro. Del resto, l’artista e colui/colei che fa teatro non sono figure coincidenti al 100%. Vi è sicuramente una componente creativa e artistica molto forte nel fare teatro, ma vi sono anche lavoro di squadra, mestiere, tecnica, scuole, un’organizzazione che deve funzionare se si vuole che lo spettacolo sia prodotto, messo in scena e distribuito. I teatranti difficilmente si considerano parte di una categoria, salvo poi rendersene conto quando la politica taglia i fondi, o annulla diritti che, se per una star del cinema o della tv prestata al palcoscenico non contano, per migliaia di altri lavoratori significano l’impossibilità di continuare a fare il proprio mestiere con un minimo di sicurezze. Qui si pone e si porrà sempre più Persinsala, come magazine che vuole fare informazione sul dietro le quinte, rispettando la categoria attorale, come quella dei tecnici, degli organizzatori e di tutti coloro che producono cultura. Ma l’esserci, in questo senso, per noi significa anche, dall’altro lato, sentirci liberi di criticare ciò che, secondo le nostre competenze, non funziona, proprio perché in quel senso il nostro referente è un altro: il lettore. E se poi i nostri suggerimenti potranno anche essere utili all’artista, non possiamo che esserne felici – ma nel rispetto dei rispettivi ruoli.

E qui arriviamo all’ultima serie di affermazioni (con buona pace del lettore che, però, su un online può spegnere e riaccendere per riprendere la lettura quando vuole). La dicotomia tra contare così tanto da poter distruggere una carriera e non contare nulla perché, forse, incompetenti (o, comunque, professori di una scienza non esatta); oltre all’affermazione che quando vi è disponibilità al confronto, questa scelta sia stimabile perché molti artisti toglierebbero addirittura la parola a un critico che osi scrivere due righe negative. Tralasciando l’arroganza sottesa all’ultima affermazione: da quando l’artista ha lo status di un dio minore con patente di infallibilità? Ci si chiede se a chi lavora in teatro non serva di più un parere onesto o un suggerimento pertinente, che un’ossequiosa pletora di complimenti fasulli. Le ciambelle non riescono sempre col buco. Ne volete tre esempi? Qualcuno spenderebbe milioni di euro per un Van Gogh, se non avesse dipinto nulla dopo I mangiatori di patate? E chi può sostenere che La città delle donne sia il miglior film di Fellini? Non esistono certezze assolute e se uno vede tensioni infinite nelle pennellate monocromatiche di Rothko, è altrettanto rispettabile colui che vi vede solo un rettangolo rosso.

Ma in uno spettacolo teatrale, così come in qualsiasi altra opera d’ingegno, si possono individuare dei parametri critici. Come nell’arte figurativa, la campata e la pennellata, l’uso del colore, la capacità espressiva, la presenza o mancanza di prospettiva, l’innovazione del gesto o del portato, eccetera, determinano un giudizio; testi eccessivamente attualizzati o pedissequi fino all’eccesso; messinscene roboanti e vuote o talmente minimal da essere svuotate di senso; interpretazioni impostate enfaticamente o poveramente amatoriali, e così via, determinano l’espressione del volto (se non lo scritto) dei critici presenti in sala. E per un regista o un operatore, osservare quei volti potrebbe essere il miglior modo per capire se uno spettacolo convince o meno.

Il critico oggi non è più quello di trent’anni fa. Il suo ruolo, in realtà, si è fin troppo ridimensionato. Altro che distruggere la carriera altrui! Sempre di più dipende dall’organizzatore per essere ospitato a un festival o accreditato a uno spettacolo – non avendo certo alle spalle un editore in grado di pagargli le spese di albergo e pasti e, spesso, autofinanziandosi per gli spostamenti e i viaggi; rubando tempo ad attività profit o ludiche o familiari per rincorrere un’intervista, scrivere una recensione, essere presente a un festival. Sempre di più il critico dipende da chi fa teatro per il proprio lavoro: scrivere libri, partecipare a incontri, fare formazione del pubblico, e così via; per non parlare dell’unico compenso certo di questo non-mestiere, ossia il riconoscimento del proprio ruolo da parte dell’attore o del regista – che avviene, chissà perché, soprattutto se si sposa aprioristicamente una poetica e la produzione di una Compagnia. Il teatro occidentale sembra quasi aver smesso di essere specchio della società, e l’artista si confonde al punto tale da voler essere lui a specchiarsi nell’elogio del critico. Ma l’eccezione non conferma la regola: molti lavoratori del teatro sono persone serie, competenti, rispettose, creative e profondamente umane.

Ora, critici e registi anche in passato hanno avuto rapporti più o meno burrascosi o costruttivi. Ma il critico faceva riferimento al proprio editore per uno stipendio e ai lettori per il riconoscimento del proprio ruolo. E se è sempre più difficile ottenere il primo, forse sarebbe il caso di rimettere il secondo al centro del proprio operato. Non sono le querele o il fatto che un artista ci tolga il saluto i parametri che devono indirizzare il nostro giudizio, bensì la fiducia del lettore nella nostra competenza e onestà intellettuale. Al regista, all’attore, al direttore artistico dobbiamo costanza e puntualità, la determinazione di difendere il settore cultura da un mondo politico sempre più concentrato sulle buche nelle strade e sempre meno attento alle voragini nei cervelli.
Ecco perché, credendo nell’informazione prima di tutto, apriamo lo Spazio Inchieste. Consci del nostro ruolo, dei nostri limiti e delle nostre potenzialità.