Ritratti d’autore

Pippo Delbono, regista e attore, da anni abita la scena alla costante ricerca di originalità. Recentemente, quale riconoscimento al suo lavoro, per Venice Days, Giornate degli Autori ha ricevuto il Premio SIAE al talento creativo e la sua Compagnia è attualmente impegnata in una lunga tournée sia nel nostro Paese che all’estero – dove è particolarmente apprezzata – con gli spettacoli Vangelo, Il Sangue, La Notte, Amore e Carne. In occasione della rappresentazione di Vangelo (che abbiamo recensito al Teatro Argentina di Roma) al Teatro Morlacchi di Perugia, Pippo Delbono ci ha raccontato qualcosa in più del suo spettacolo.

Vangelo nasce da una precisa richiesta fatta da sua madre. Che tipo di rapporto esiste fra la sua arte, sua madre e Dio?
Pippo Delbono: «Io non credo in Dio. Ritengo che Dio sia la trasposizione di un concetto mentale. A questa trasposizione sono state associate delle immagini, dando materialismo a qualcosa molto più grande di noi ma che non entra nelle categorie della mente perché trascende lo spazio e il tempo. Io, da praticante buddista posso pensare a un universo, a qualche cosa che sta nella legge della natura segreta e che non è in contraddizione con la scienza e con il conoscere se stessi. Il mio teatro si confronta sempre con il sacro, ma l’arte tutta si confronta con la morte e la nascita. Mia madre l’ho portata spesso all’interno dei miei spettacoli perché ho avuto la fortuna di stare vicino a una donna di grande fede e questo, per esempio, mi ha permesso di fare un cammino di religiosità, ma anche di mostruosità, in Vangelo. Con l’attuale Pontefice si sono creati spazi nuovi e interessanti e mi spiace che mia madre se ne sia andata proprio al suo arrivo».

Nel teatro antico esisteva la figura del deus ex machina, un’entità che interveniva nei fatti dell’uomo per rimettere ordine. La sua negazione di Dio è dovuta al fatto che questa entità superiore non sia intervenuta neanche per salvare il proprio figlio sulla croce?
PD: «Io vengo da una cultura cattolica. Piuttosto che sulla figura di Dio padre sono più attento alla figura del bambino. Io credo in un Cristo, che come il Buddha, indica un cammino che tutti possano perseguire. Personalmente mi confronto meglio con persone che hanno fatto un cammino di fede, piuttosto che con chi ha compiuto solo la strada dell’ideologia politica. Siamo stati tutti padri e tutti figli. Figli di milioni di padri e padri di milioni di figli in un tempo infinito che la nostra mente non può capire».

Nel modo da lei scelto di raccontare il suo Vangelo, c’è una forma autobiografica sullo stile di Sant’Agostino, che peraltro lei cita. Agostino d’Ippona era un teologo berbero, dove berbero in origine aveva il significato di uomo libero. Lei si considera un uomo libero?
PD: «Anelo alla libertà, ma sento costrizioni che sono soprattutto le mie paure. Porto addosso segni di quella formazione di cui non sono riuscito a liberarmi completamente. Non mi fermo molto su quello che so fare, piuttosto su quello che non so fare. Cerco di percorrere quel cammino che poi in definitiva è un cammino di fede, senza perdere quell’obiettivo che è politico e sacro, senza distinzioni».

All’inizio del suo spettacolo ci sono undici poltroncine foderate di rosso. Nell’Ultima cena sappiamo esserci dodici posti. Idealmente la dodicesima poltrona è proprio la sua, oppure, rappresenta a suo modo di vedere l’assenza di Dio il posto mancante?
PD: «Undici è il mio numero. Il perché dovrebbe logico, è un rimando all’ultima cena da cui potrei mancare io. Ma, siccome è un concetto visivo e coreografico lo lascio alla libera interpretazione».

In Vangelo lei fa uso di varie forme d’arte. Il suo spettacolo è un prodotto finale, oppure, è esso stesso sperimentazione e potrebbe quindi subire delle modifiche e sfociare in altre forme espressive?
PD: «Lo spettacolo teatrale ha una struttura paranoicamente millimetrica. Io sono l’unico al suo interno che, a volte, si permette di cambiare qualche piccolo gesto. Questa è una macchina che ho impiegato tanto a creare, ma che da quando è stata completata non è più possibile cambiare. Come in un quadro di Bosch non si possono mettere degli elementi in più o in meno. Questo perché porto le persone in un viaggio talmente particolare da cui non è più possibile uscire. Quando l’opera è finita non si può rientrare, altrimenti si rischia di perdere tutto e per Vangelo ho impiegato quasi un anno e mezzo di lavoro».

Nel suo modo di fare arte c’è di base una ricerca del bello, oppure presta la sua attenzione prevalentemente a far smuovere le coscienze di chi viene ai suoi spettacoli?
PD: «Io non voglio smuovere, cerco il bello. Cerco l’amore, ma, a volte, per arrivarci, i solchi sono così netti che spesso una semplice frase esce dai binari in un modo che è del tutto arbitrario. Nel film Vangelo che uscirà a Pasqua dico: «Non credo nei miracoli, non credo nel Cristo che cammina sull’acqua, credo nelle persone che sprofondano nell’acqua». Devo però riconoscere che la mia vita è stata piena di miracoli perché ho avuto fede e creduto in essi. Ventisei anni fa quando mi dissero che ero sieropositivo mi diedero un anno di vita, invece eccomi qua. C’è un miracolo, ma è un miracolo che nasce da dentro. Non credo nelle madonne che fanno i miracoli, ma in qualcosa di più grande. Dentro di noi, dentro tutte le persone c’è la luce, ed è questo il cammino».