L’atelier creativo del Giochi di bimbi e gioco teatrale: come uno spettacolo senza parole, costruito con rigore e ricchezza di invenzioni drammaturgiche, riesce a sortire risultati ad in tempo inquietanti e divertenti.

Ascrivere ad un genere teatrale canonico Playroom non sarebbe facile, ma forse anche inutile.
Non lo si può definire uno spettacolo di teatro-danza, né di mimo e, forse, più che di attori, è meglio parlare di performer. Certo è che, nell’angusto seminterrato di via Porpora, ove il Teatro delle Moire propone le sue produzioni, l’altra sera un pubblico eterogeneo (ma mediamente sotto i trent’anni) ha seguito con sospesa, coinvolta attenzione quello che stava succedendo in scena.
Il programma di sala faceva riferimento a Il signore delle mosche di William Golding, e alla Trilogia della città di K. di Agota Kristof, parlava di tre bambini che giocano a fare gli adulti che giocano a fare i bambini, presentava lo spettacolo come “lettera alla figura paterna sempre più evanescente”.
Preferirei prescindere da tutto ciò; anche perché, non avendo assistito agli altri due spettacoli della trilogia (Never Never Neverland e It’s always tea time), dei quali Playroom costituisce la terza parte, mi manca una visione d’insieme del progetto artistico.
Più semplicemente direi che Playroom è uno spettacolo godibile e sconcertante. Fin dall’inizio, con un gustoso rovesciamento del rapporto di causa ed effetto, si assiste ad una sorta di modellamento delle ombre, suggerite da pezze e mantiglie nere disposte sul pavimento, cui si adeguano i corpi che le dovrebbero produrre, e ciò crea suggestioni figurative che rimandano alle affilate, segaligne sculture di Alberto Giacometti. Ma il gioco di bimbi – o teatrale – vira presto in tragedia e in lutto, quando quelle ombre divengono la pozza di sangue nel quale giace un cadavere.
E se, al risuonare delle prime note del bellissimo ma abusato trio op. 100 di Schubert, lo spettatore snob avrà arricciato il naso, non appena il disco sembrerà incepparsi, in sincrono con una esplosione di lampi stereoscopici, questi dovrà rendersi conto che è proprio la beffarda, maliziosa rincorsa al kitsch che caratterizza l’intera partitura gestuale. Tale godibile spiazzamento prosegue col pianto delle prefiche, quindi con la restituzione, attraverso una mimesi facciale in perfetto sincrono, del sonoro di film di culto, in lingua originale, come Velluto blu o Via col vento, espediente che sortisce effetti di esilarante comicità con la sua reiterazione e con lo scambio degli interpreti, tanto credibili nella mimica quanto ferocemente improbabili nei loro ruoli, ove si rimescolano volutamente sesso ed età.
Ma questo incredibile, apparente bric-à-bracappare iscritto in una partitura di movimenti ed azioni governata da grande rigore progettuale ed esecutivo che, oltre a rivelare la solida formazione coreutica degli interpreti, si esprime nell’incisiva sobrietà della scenografia, nella precisione con cui vengono manipolati gli oggetti di scena, nelle vestizioni a vista, nella suggestione dei riferimenti figurativi (oltre al già citato Giacometti, si indovinano prestiti dai maestri del Surrealismo), in un’orchestrazione coerente proprio nei suoi frequenti scarti di atmosfere e di registri espressivi.
Questi valori di invenzione drammaturgica, la pregevolezza della fattura, il divertimento che tutto ciò suscita, anche nello spettatore ingenuo, direi che prevalgono sull’eventuale messaggio.
In questo senso, mi sembra di essere in sostanziale sintonia con Renato Gabrielli, che nel progetto ha svolto il ruolo di dramaturg (funzione che, con felice autoironia, definisce “figura critico-creativa di spettatore interno”) e scrive:
“Non c’è niente da denunciare, qui, e tanto meno da dimostrare. […] Tre adulti/bambini (oltre a De Dantis e Nicoli Cristiani, Gianluca De Col) condividono uno spazio chiuso senza spiragli, che è la stanza dei giochi ma anche della rappresentazione – di un gioco teatrale preso terribilmente sul serio”.