L’odio sa parlare alle folle

Al Teatro dell’Orologio di Roma, La prima, la migliore riporta all’oggi una guerra i cui echi, malgrado siano passati cento anni, sembrano terribilmente prossimi.

All’accensione delle luci sul palco, un soldato canta alla chitarra Lu tamburru de la guerra, scritta nel 1955 da Domenico Modugno: una madre aspetta il ritorno del figlio dalla guerra. Le viene portata una camicia bianca con una macchia rossa e un buco. La canzone non ebbe successo, forse perchè nessuno aveva voglia di vedere il proprio “buco” tramandato dai nostri genitori, dai nostri nonni. Modugno ostinatamente ripropose la canzone nel 1971, all’interno dell’album Con l’affetto della memoria, come a voler ribadire che la memoria ci individua, ci scava dentro mancanze e ferite, che malgrado la nostra certezza ontologica, ci rende tutti “reduci” di qualcosa che non vogliamo ricordare, e che siamo condannati a rivivere.

Già dalle prime battute, non è affatto chiaro se si parla di un evento avvenuto nel 1915, o di un incubo dell’oggi, come a dire che la memoria – quando è soffocata – torna con gli stessi demoni che portarono l’Europa a milioni di morti nella prima metà del novecento. Gli autori – Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari – vogliono parlare all’oggi, e seminano nel testo in modo deliberatamente ambiguo, le parole d’ordine che portarono alla prima guerra, facendo intendere come siano le stesse di ora: “È giunta l’ora di scendere in campo”; “È il momento del coraggio”; “Si deve lottare per aver peso in Europa”. Ieri come oggi si invoca l’uomo forte, pensando che la crisi di debolezza della nazione si possa risolvere con la forza di un uomo. Cosa c’è di buono in un giovane? Niente. Il suo valore è puramente d’uso, quindi è sacrificabile, come lo è stato ieri negli assalti in campo aperto, come oggi è sacrificabile il suo futuro.

Tra i politici che arringano le folle, e l’eccitazione di una guerra il cui prossimo accendersi viene sempre attribuito al nemico, il testo narra la storia di un giovane che parte tra l’eccitazione generale. È spaventato dagli stivali inservibili dopo solo due settimane, dagli ordini cattivi degli ufficiali che contraddicono la seducente retorica di regime. La “classe dirigente” di questa guerra è ovviamente scelta tra i più incompetenti, tra i più analfabeti, tra i più mediocri. I superiori con il loro occhio da cortigiano, si guardano bene dal chiedere l’andamento della guerra agli unici che ne sanno dir qualcosa, ossia ai militi, ai fucilieri. Sono carne da macello, e come tale vengono trattati: sono piedistallo per un delirio di perversa onnipotenza.

Cos’è che muove la follia nazionalistica? Una donna sul palco parla con i versi di Wislawa Szymborska: l’odio è più giovane e più vecchio degli altri sentimenti, tutti malaticci e fiacchi; l’odio sa creare bellezza, comporre canzoni, sa parlare alle folle. Filippo Marinetti definiva la guerra come “sola igiene del mondo”, trovando in questa una vendibile energia purificatrice. L’esito di queste parole è che «siamo divenuti accorti come mercanti, brutali come macellai, non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti».

Il testo è scabro, scandito dalla musica per chitarra dal vivo, e dalle esplosioni delle granate. La scenografia si mobilizza tra il fango delle trincee, l’esplorazione in montagna, il ritorno a casa, i plotoni di esecuzione per i disertori: sembra il trascolorare di vecchie cartoline dal fronte. Lo Stabat Mater di Pergolesi battezza gli ultimi morti della guerra, ispirandosi ad alcuni passi del romanzo All’ovest niente di nuovo di Erich Maria Remarque, ma che nella (mia) memoria vanno a pescare due scene dell’omonimo film di Lewis Milestone, quella in cui il protagonista uccide per paura un giovane francese (restando a vegliarlo per tutta la notte), e quella in cui, poco prima dell’armistizio, il giovane alza la testa dalla trincea per tentare di catturare una farfalla.

Gli autori stasera ci hanno detto che la bestia umana, come un sonnambulo, sta scavando il baratro sopra cui danza di buona allegria. Forse ci salverà una farfalla. Questo teatro, nel suo ostinarsi a parlare a un mostro che solo può digrignare denti e masticare ossa, ha la bellezza di una farfalla, sempre pronta a chiamarci fuori da tombe e da trincee per toccare quella fragilità che tuttavia ci muove. Il suo nome è “speranza”, che il pubblico – malgrado tutto – si è portato via alla fine degli scroscianti applausi.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Orologio

Via dei Filippini 17/a, Roma
dal 24 al 29 gennaio 2017
dal martedì al sabato ore 21.00, domenica ore 18.00
durata 50 minuti

La prrima, la migliore
scritto e diretto da Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
con Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari, Davide Berardi
capoelettricista Luca Diani
sarta Elena Dal Pozzo
foto di scena Raffaella Cavalieri
produzione Compagnia Berardi / Casolari, Emilia Romagna Teatro Fondazione