Castrovillari, 31 maggio 2013. Seconda e terza giornata

loc_primaveradeiteatriIl parterre dei critici teatrali è al completo. I chiostri secenteschi e il bar del Protoconvento  sono i punti di prima accoglienza di quella meta di pellegrinaggio teatrale che, per giornalisti, operatori, artisti, è ormai divenuto Primavera dei Teatri.

Gli spazi destinati alle rappresentazioni teatrali dovrebbero essere principalmente il Teatro Sybaris e il cortile del Castello Aragonese, ma l’incertezza del tempo e una incongrua temperatura serale e notturna hanno limitato l’utilizzo di questo luogo affascinante, recentemente restaurato, e alcuni spettacoli sono stati trasferiti nella grande aula attrezzata che si affaccia sul primo piano del chiostro.
È il caso dello stimolante Shitz – pane, amore e… salame, del prolifico scrittore israeliano Hanock Levin, famoso – e discusso – in Israele, ma pressoché sconosciuto da noi: nulla della sua amplissima produzione teatrale, infatti, è stata ancora tradotta nella nostra lingua. A parte la scelta del titolo italiano, con la sua opinabile strizzata d’occhio cinematografica, questa tragicommedia musicale, nella messa in scena di Idiot Savant, per la regia e riduzione drammaturgica di Filippo Renda, è esilarante. Dal cinismo beffardo che la percorre, sottolineato dai costumi grotteschi, emerge una satira feroce della famiglia yiddish,e della società israeliana. Tutti gli stereotipi dell’antisemitismo arrivano direttamente allo stomaco dello spettatore, che ne risulta spiazzato, specie se non ha confidenza col corrosivo umorismo ebraico, del quale, peraltro, Levin sembra un esponente atipico. Perfettamente in parte i quattro attori, anche nelle prestazioni canore e musicali.
Col suo ultimo lavoro, In fondo agli occhi, Gianfranco Berardi (in scena con Gabriella Casolari, regia di César Brie) rimescola le carte. Eravamo abituati a vederlo giocare, come un prestigiatore, o un funambolo, con la sua cecità. Qui, con addosso la maglietta calcistica di Tiresia, ce la rovescia addosso con vulcanico furore. Forse i due temi che attraversano lo spettacolo, cioè l’invettiva satirica sull’Italia di oggi, della prima parte, e quello che, nella seconda, sembra restituirci con tenerezza il suo vissuto personale, il sodalizio artistico e di vita con Gabriella, non sono amalgamati con giusto equilibrio. Ma lo spettacolo ha lo stigma del suo personalissimo porgere teatrale, e bisogna riconoscere a Giancarlo il merito di non volersi accontentare di ripercorrere strade già sperimentate con successo (pensiamo all’incredibile Il deficiente), ma di essere disposto a rischiarne di nuove.
Di Mario Perrotta, del Teatro dell’argine, conoscevamo l’originale, efficace, ironica cifra di narratore, sperimentato con il ciclo Italiani cincali, ma, con Un bès. Antonio Ligabue, l’artista propone una modalità teatrale nuova. Il suo modo di restituirci la figura del pittore procede come per approssimazioni successive, o per inviluppo. La sua lingua è un impasto di emiliano e svizzero tedesco ma, fin dall’inizio, con mano sicura (la sinistra), l’attore inizia a disegnare su grandi pannelli e, quei paesaggi alpini, quegli scorci di volti umani chiariscono, illustrano, a volte anticipano il racconto e, a poco a poco l’integrazione di parola e il segno grafico dà forma alla tormentata figura di Ligabue, con un sorprendente sapore di verità.
Infine, Noosfera Museum, prodotta da Fortebraccio Teatro, di e con Roberto Latini. La sua performance è inizialmente è accompagnata solo da musica elettronica, da una tarantella, da temi orecchiabili. Il tema del vampiro, suggerito dal titolo è evocato dal sangue che, da un un piccolo bacile, colerà sui suoi vestiti. Il tutto appare costruito con estremo rigore, secondo una poetica originale e coerente, ma non per questo meno criptica. Cerco aiuto nel programma di sala. Leggo due volte la seguente frase: “Il disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalle nostre aspirazioni, la cecità del fondo di un qualsiasi fondo, il mutismo dei pensieri di chi né servo né padrone parla, dopo la tempesta, alla sua sola solitudine, corrisponde a dove ci siamo rifugiati in attesa di nessuna aspettativa”. Cedo le armi.
Conclusa la giornata, si ripercorre in salita il corso Garibaldi. I cani randagi sonnecchiano sulla scura pietra di Cerchiara, venata di bianco, che lastrica i marciapiedi. Silenziosi ma inquietanti, si direbbero ormai parte dell’arredo urbano di Castrovillari.

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