Castrovillari, 29 maggio 2013

loc_primaveradeiteatriIl festival Primavera dei Teatri è iniziato ieri sera, con ritrovata puntualità, dopo l’ultima edizione tenutasi a novembre scorso, cui era stato aggiunto spiritosamente il sottotitolo “Fioritura tardiva”. 

Già, perché non solo la cultura è finanziata poco e male, ma quei pochi euro arrivano con tempi incompatibili, non dico con uno straccio di programmazione ma, quando va bene, a funerali avvenuti.
Ma gli intrepidi Dario De Luca, Saverio La Ruina e Settimio Pisano, hanno deciso di rischiare, con “sfrontatezza”, come loro stessi dichiarano, e di salvare la continuità di un’iniziativa che, grazie a Scena Verticale, da quasi quindici anni costituisce una delle più intelligenti occasioni d’incontro della scena contemporanea, come recita il sottotitolo della rassegna.

Il grosso dei critici arriveranno fra oggi e domani, ma ricordo con tenerezza – e anche una punta di orgoglio – i tempi in cui, agli esordi, ero l’unico giornalista che, dal nord, si spingesse fino a questa cittadina, adagiata come una sella sulle pendici del Pollino, dove queste si inarcano in una sorta di rocca, sede del Castello Aragonese e del Protoconvento.

Di notevole interesse i due spettacoli proposti ieri , così diversi sul piano stilistico ma, in un certo senso, legati dal tema: il rapporto fa uomo e donna.

Con Lo stupro di Lucrezia, già visto a Milano in autunno, Valter Malosti, regista e responsabile della riduzione drammaturgica, ha incrociato e amalgamato efficacemente diversi registri espressivi. Il ritmo dell’endecasillabo shakespeariano viene volutamene slogato; il linguaggio alto della tragedia, contaminato con termini bassi. Lui stesso, si ritaglia un ruolo di narratore, o forse demiurgo, o personaggio coro che sfoglia e legge, seduto in fondo alla scena, un codice in folio. Trasparenti i riferimenti figurativi, dal nudo scultoreo, a tratti michelangiolesco di Tarquinio (Jacopo Squizzato) alla Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi. La colonna sonora passa con studiata noncuranza dalla delicatezza di arie secentesche all’assordante durezza della musica elettronica. Nel richiamo a una cultura del possesso sessuale, a codici di comportamento ancora vigente dopo oltre duemila anni, Shakespeare si rivela, ancora una volta, di inquietante attualità. Ma è specialmente nell’utilizzo dei due corpi nudi che il lavoro ha uno di suoi punti di forza. Quei due ragazzi, nudi in scena per la quasi totalità dello spettacolo, riescono a restituirci in modo credibile la parola tragica e poetica di Shakespeare, e il tenero, commovente, vulnerabile corpo di Alice Spisa diviene il disperato emblema della violenza dell’uomo sulla donna.

Di tutt’altro segno, Il nostro amore schifo, scritto e interpretato da Francesco d’Amore e Luciana Maniaci (la compagnia si chiama Maniaci d’amore). Qui una coppia un po’ strampalata, che sembrerebbe uscita dalla matita di Peynet, ci trascina invece, dopo poche battute, in un mondo altrettanto surreale, ma feroce nella sua lucida assurdità (siamo, semmai, dalle parti di Achille Campanile). In una luce beffarda e grottesca, cui non sono estranei i temi dell’autodistruzione e della morte, emergono e si declinano, le nevrosi, le frustrazioni della sbandata odierna generazione dei ventenni, in cerca di un ubi consistam affettivo.

Un esperimento teatrale e drammaturgico certo suscettibile di maturazione, ma da incoraggiare.

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