Nostalgia, tenebre e ritmi asfissianti

Tra gli eventi musicali più attesi ed importanti della fine primavera, il festival catalano offre sterminate possibilità di percorsi all’interno del mondo del rock e dell’elettronica. Circa 300 nomi che si producono nello spazio di cinque giorni nello storico spazio del Fòrum ma anche in città, nel caratteristico quartiere del Raval e in alcuni club del centro per un’abbuffata di musica e di colori. Questo, e moltro altro ancora, è il Primavera Sound Festival di Barcellona.

Il nostro secondo giorno di festival coincide con il primo vero momento della tre giorni ufficiale del Primavera. Dopo il “warm-up” del mercoledi, il festival entra nel vivo della programmazione con una lunga ed intensa giornata di musica. La nostra sessione si inaugura coi i Broken Social Scene, a fine pomeriggio. I primi due brani, Cause = Time e 7/4 Shoreline sono ruvide ballate che scorrono rapidamente e che invadono l’arena del Ray-Ban per il primo concerto di rilievo. La band fondata da Kevin Drew e Brendan Canning chiama a raccolta amici e un piccola parte dei numerosissimi membri della band per un ottimo concerto che mostra la varietà e l’interessante proposta del ricco collettivo canadese. E se siamo incappati in una brutta versione di Halfway Home, con la successiva Stars and sons i BSS si sono ripresi alla grande. Fortunatamente. Purtroppo la nota peggiore non è certo dovuta al gruppo ma ad un pubblico che, più che rumoroso, appare estremamente distratto e che ci ha ricordato, per molti versi, quello terribile dell’anno passato al concerto dei Radiohead. Esserci ma non esserne consapevoli. E ciò ci spinge, prima del tempo, verso un altro palco, quello del Pitchfork dove si esibiscono i Glass Animals. Inglesi, giovanissimi, con all’attivo solamente due album ma un seguito di fan estremamente ampio e accanito. L’ascolto di Black Mambo ci fa immediatamente capire di cosa si tratta: voce cattivante, groove quanto basta, cascata di note e un pizzico di antica musica disco, atmosfere leggermente lisergiche. Il mix perfetto. Minimo sforzo, massimo risultato. Season 2 Episode 3 si sposta maggiormente su non troppo stupefacenti sentori R’n’B, mentre Poplar St. ci blocca e ci fa rinnegare la sensazione iniziale che avevamo avuto, quella di un gruppo post-adolescenziale furbo ma di poca sostanza. Ed invece, dobbiamo ricrederci: questi ci sanno fare davvero! Una intro alla Red Hot Chili Peppers, liriche intelligenti, voce leggermente ruvida, e così rock. Si passa poi, senza soluzione di continuità, alla splendida The Other Side of Paradise, più elettrica e nervosa. Se il ritornello è cantato da tutto il pubblico (questo sì, particolarmente attento), notiamo che nulla è fine a se stesso in questa musica e noi siamo particolarmente attratti dal violento e straordinario bridge (concepito in un crescendo drammatico) di questa canzone. Successivamente torniamo su toni più leggeri con Gooey, rimanendo del nostro (secondo) parere: questi ci sanno fare davvero.

Lasciamo gli inglesi per correre verso il palco del Primavera dove inizieranno a suonare, tra pochi minuti, i francesi Gojira, paladini del metal d’oltralpe. L’apertura del concerto è straordinariamente violenta: Only Pain. Christian Andreu disegna taglienti linee melodiche con la sua chitarra mentre la voce di Joe Duplantier violenta e immerge il mondo circostante nelle tenebre. La successiva The heaviest matter of the universe si apre con la rapidissima batteria di Mario Duplantier e si innanza nei toni epici della voce del fratello, leader di questa storica band. Non perdono nemmeno un solo secondo questi francesi e inanellano una perla spigolosa dopo l’altra. Silvera si mantiene su di un perfetto equilibrio tra trash, death ed epic, arricchito da un doppio finger-picking che disegna paesaggi ancora più inquietanti. Il gruppo mostra una forma invidiabile e nella (purtroppo) breve mezz’ora che abbiamo potuto concedergli, ci ha mostrato un metal fatto di coerenza e ricchezza, dove le enormi possibilità di questo genere vengono sfruttate non con curiosità, ma con grande intelligenza.

E, nel frattempo, ci siamo persi The Zombies che proponevano il loro capolavoro Odissey & Oracle in occasione del 50esimo anniversario dell’uscita. Questo è un vero peccato. Decidiamo di raggiungere, e non senza qualche difficoltà, uno dei due palchi principali, quello dell’Heineken, dove ci aspetta Bon Iver. Ok, non siamo soli. Essere il punto di riferimento di milioni di hipster di tutto il mondo ha come risultato la creazione di folle oceaniche ai suoi concerti. E quello di Barcellona non fa difetto. Si inizia con la delicata 22 (OVER S∞∞N), dove emerge un aspetto vocale che ricorda molto da vicino i Sigur Rós, mentre un sax jazz aumenta il gradiente di fascino di un pezzo che sarebbe già bellissimo anche se ne fosse privo. La successiva 10 d E A T h b R E a s T, strana creatura in equilibrio tra minimalismo, noise, post-rock ed electro, ci trasporta lontano. E dove, esattamente? In quel mondo Iveriano popolato di creature bizzarre, proprio come quelle che prendono vita sul palco grazie ad uno spettacolo visivo delicato e imponente. Questa strana colonia di piccoli esseri può bastare a se stessa ed è così che 715 – CR∑∑KS può anche accantonare la parte musicale per concentrarsi su di un semplice aspetto vocale modificato ed elettrizzato. Ancora numeri e numerologia con la successiva 33 “GOD”, più disordinata forse proprio per l’emergenza di segni, tratti, abbozzi di forme che accompagnano le già citate creature e una voce che sembra smaterializzarsi. I pezzi si susseguono con eleganza e proprio per preservare questa sensazione di bellezza che ci pervade, decidiamo di andarcene. Un’ora e mezza di Bon Iver schiacciati dalla folla sarebbe stata (forse) troppa. Tagliamo la folla in due e riguadagniamo, con qualche difficoltà, l’aria così bramata.

È giunto il momento di ascoltare i mitici, e sfortunati, Afghan Whigs, tornati in attività pochi anni fa dopo uno iato di quasi quindici anni. Ci accoglie una canzone che non riconosciamo immediatamente. Si tratta di Light as a Feather, tratta da In Spades, l’album uscito un mese fa per la loro storica (e mitica) etichetta Sub Pop. Segue la riflessiva Algiers, pezzo leggermente meno recente, ma forse più affascinante, tanto nelle variazioni vocali di Greg Dulli, che nella parte delle chitarre. Certo, gli Afghan Whigs sono invecchiati ed ingrassati, ma sono dannatamente fedeli a se stessi e allo loro proposta musicale. E lo si nota da come viene suonata la bellissima Gentleman, vecchio pezzo, ruvido e che guardava con attenzione quello che succedeva a Seattle in quegli anni, i primissimi e irripetibili anni Novanta. Ritrovare la voce di Dulli fa davvero piacere e, se possiamo esagerare, troviamo che gli anni gli hanno fornito una profondità che mancava venti anni fa. Oriole è un pezzo nuovo ma estremamente interessante, dove ritroviamo il sound del gruppo ma in versione “tirata”. C’è anche il tempo per delle lacrime. Ecco Toy automatic con il suo ritornello My love/My dear/My love/My tears dove la voce del cantante diviene malinconica e nostalgica. Ancora una canzone nuova: Demon in Profile e John The Baptist sono due canzoni che ci toccano particolarmente per l’utilizzo di sax, violino e tromba e che le rendono così meravigliosamente newyorkesi. Un set improntato maggiormente sugli ultimi due lavori ma in egual modo di tutto rispetto. Che meraviglia ritrovare gli Afghan Whigs!

Non possiamo restare fino al termine del concerto perché c’è un nome altisonante che ci richiama e che necessita di un po’ di anticipo se non vogliamo rimanere nelle retrovie: Slayer. È mezzanotte. Ecco i quattro membri avanzare davanti ad una scenografia dove il volto del Cristo sofferente è conchiuso in un circolo di figure apocalittiche e che rappresenta la copertina dell’ultimo album della band, Repentless del 2015. Partono le note della canzone eponima, tagliate con precisione da Kerry King. Ancora prima che la voce aggressiva e fredda di Tom Araya inizi ad emergere, ci ritroviamo, improvvisamente, in mezzo ad un pogo piuttosto violento. Le buone abitudini non si dimenticano. Pochissime sono le canzoni degli anni Duemila, e l’attenzione è data alle perle nere dei magnifici cavalieri dell’apocalisse: The Antichrist, Mandatory Suicide, War Ensemble, Hallowed Point, e ancora Captor of Sin, Postmortem. Capolavori violenti e taglienti degli anni Ottanta, epoca d’oro di questo gruppo mitico che sembra sempre essere sul punto di chiudere la propria storia ma, per fortuna, ci ripensa e torna sui propri passi, producendo poco ma di ottima qualità. Lasciamo i ragazzi divertirsi davanti al palco del Mango e attraversiamo l’esplanade con molte più difficoltà rispetto al concerto di Bon Iver per raggiungere l’Heineken.

Accolto da centinaia di magliette e da una bandiera reduci di una lontana stagione di gloria (eh sì, il Primavera possiede anche una programmazione speciale “nostalgia canaglia”), Aphex Twin apre il suo lungo set  (un’ora e quaranta) con un po’ di sano rumorismo che vira, immediatamente dopo su atmosfere più prettamente elettroniche e affascinanti. Una manciata di brani inediti prima di lanciarsi su una lunga serie di cover  (tra le quali riconosciamo dei segmenti di Caves of Steel degli Interstellar Funk e la trascendente Trance Sexual di Fantastic Man. Il concerto di Aphex Twin è un incredibile collage di ritmi serrati e asfissianti, di ritmi e grida, brandelli di realtà che si giustappongono in questa volontà di disfare il mondo per proporne una sindone negativa. Il nostro udito è messo alla prova da questo pazzo terrorista sonoro che, ogni volta che sembra lasciar credere ad un’apertura verso un pezzo libero e ballabile, interrompe qualsiasi volontà omogeneizzante per irrompere con interferenze distruttive. Ambient malato. Hardcore atroce. Elettronica sanguinante. Eppure, questo lavorio incessante è completamente dedicato alla creazione di una tensione irresistibile, in un crescendo che non culmina mai nella sua realizzazione. Composto, nascosto, protetto, Aphex Twin lascia il posto alla sua musica che si immerge in un collage visivo di sapore dadaista. Un concerto assolutamente geniale. E sorge una domanda. Per quale motivo in sedici anni questo straordinario dj ha prodotto solamente un album (Syro del 2014)?

Ce ne andiamo soddisfatti di questo momento, ma la lunga giornata di concerti non è ancora terminata per noi. Un ultimo sforzo è necessario per i Tycho. Siamo già a notte inoltrata, ma il loro set non dura più di cinquanta minuti. In altre parole, siamo obbligati a presenziare. Ed ecco che siamo immediatamente travolti dalle note di A walk, meraviglioso sogno che lambisce delicatamente le rive del pop e dell’ambient. Source è un passaggio minimalista, mentre PBS ci trasporta delicatamente in un mondo altro. La stanchezza sembra abbandonarci grazie alla leggerezza di queste linee melodiche oniriche che accarezzano e che distendono. Rimaniamo fino alla fine e, all’alba della 4 di mattina, decidiamo di chiudere una giornata dalle tinte estremamente diverse e contrastanti, lasciandoci trasportare da queste note fino all’agognato riposo notturno.

Primavera Sound Festival 2017
Parc del Fòrum
Muelle de la Marina Seca, C/ De la Pau, 12 – Barcellona (Spagna)
dal 31 maggio al 4 giugno 2017

programmazione completa
www.primaverasound.es