Di teatrini infantili, screzi, cieli plumbei e delusioni. Con un omaggio al Duca bianco e una nota di Adriano Celentano

Day III. Ancora tanti suoni, delicati o violenti, ricercati e graffianti. L’ultimo giorno (per noi) del Primavera Sound Festival di Barcellona ci ha riservato molte sorprese, momenti intimi e tensioni trascendenti. Con un finale a sorpresa

La nostra lunghissima ed ultima giornata al Primavera inizia prestissimo. È sabato, ieri abbiamo fatto le ore piccole, ma alle 16 ci aspetta Stephin Merritt all’Auditori del Fòrum. Merrit è il genio multistrumentista dietro al surrealistico nome The Magnetic Fields (Breton avrebbe certamente amato il mondo stralunato dell’americano), sotto il quale sono apparsi lavori assurdi e particolarmente ingombranti. Sì, chi vi scrive non si è ancora ripreso dall’ascolto di quel cofanetto pubblicato nel 1999 ed intitolato 69 Love Songs, titolo didascalico di un opus esagerato. Bene, quasi venti anni dopo quel triplo cd con 69 canzoni d’amore, i “campi magnetici” tornano con un quintuplo disco che comprende 50 canzoni, una per ogni anno di vita di questo folle americano (per gli manti della precisione, indichiamo che il conteggio si ferma al 2015). Il doppio show di Barcellona è stato interamente consacrato a quest’ultimo lavoro, in una sorta di concezione teatrale della musica che ha indubbiamente conquistato tanto i vecchi fans quanto i curiosi che non hanno esitato a fare la coda sotto il sole catalano per avvicinarsi a questo sorprendente mondo. Entrati nel ventre dell’Auditori del Museo delle Scienze, la nostra attenzione è attirata, immediatamente, da un piccolo teatrino montati sul palco, stratagemma che avvicina ancora di più l’esperienza di un concerto dei Magnetic Fields a quella del sogno. La voce di Merritt sembra provenire da abissi indeterminabili, ed è una bizzarra crasi tra una dolcezza delicata che culla e una ruvidità che, proprio di quegli abissi, riporta alla superficie tutto il mistero più oscuro. ’02 Be True to Your Bar riesce nell’intento di allontanarsi dalla classicità per divenire vera e propria culla sonora. Poco importa che questa melodia sia impregnata di ironia alcolica. Il mondo sonoro di Merritt avviene in questo teatrino roseo, condensazione del lutto infantile, in una dimensione di sogno e di nostalgia. Una autoreferenzialità che è la ragione stessa dello sterminato album e che si riversa come una marea di suoni che possiedono tutti un’acutezza tagliente. E se non fossimo convinti di trovarci di fronte ad un vero e proprio spettacolo teatrale egoico, l’intervento di un entracte ce lo ricorda senza appello. Approfittiamo di questa pausa per ritrovare la realtà, il sole mediterraneo e un mondo meno soggettivistico.

Ce la prendiamo con comodo prima di affrontare una sessione senza pause di festival, inaugurata dai Royal Trux, gruppo mitico del quale non sentivamo parlare da più di quindici anni. Vedere il loro nome comparire nella programmazione del Primavera ci aveva convinto, ancora di più, dell’incredibile bellezza e varietà di questo festival, capace anche di punte di radicalità che ci sanno emozionare. Certo, nella nostra memoria (e nelle nostre orecchie) raschiavano ancora i suoni di quel capolavoro (9/10 da Scaruffi!) del 1990 intitolato Twin Infinitives. Lo show di Barcellona è, effettivamente, un’altra cosa (sì, ok, dovremmo smetterla di sognare ad occhi aperti). Post punk, noise rock, chiamatelo come vi pare, ma quello proposto al Primavera sembra essere maggiormente un rock destrutturato e alticcio, non disordinato, ma estremamente confuso. Una performance nervosa, cattiva, rumorosa, e di una bellezza che emerge solamente a tratti. Hagerty insiste su di una chitarra indisciplinata mentre Herrema molesta una macchina rumoristica. I due creano due universi sonori che resistono al dialogo, proprio come una discussione tra marito e moglie (e, neanche ad invocare appositamente questa similitudine, ecco i due mettersi a litigare non curandosi della macchina perfetta dell’organizzazione del Primavera). Se la musica dei Royal Trux è un inno d’amore verso il non-finito, l’interrotto, il coitus interruptus, la loro proposta è anche quella di una reiterazione sans cesse di tutto ciò, come se volessero creare le condizioni per un universo sterile e votato alla dépense. Le canzoni si susseguono alla stessa velocità delle lattine di birra sul tavolo della Herrema. Poi, quasi per caso, ecco I’m ready, dove compare un’inaspettata vena blues ben lontana dall’originale. E la cosa ci piace molto! Nel complesso possiamo dire che lo spirito del gruppo è ancora presente. Fortemente acuito da droghe e alcol.

Dopo questo terremoto sonoro, ci dirigiamo dall’altra parte del parco, per uno dei concerti più attesi del Primavera. Arriviamo sulle note di Baby Please Don’t Go  (e immediatamente si sente una volontà medley, ed ecco susseguirsi Don’t Start Crying Now / Custard Pie / Here Comes the Night). Lui, Van Morrison. 71 anni, una carriera oramai entrata nella leggenda e una forma smagliante. Indubbiamente, è un onore vederlo esibire e cerchiamo di approfittarne un po’, anche se il sentimento orgiastico del festival si impossessa di noi senza lasciarci mai un momento di tranquillità. Blues, folk, soul, un rock che è fuori dal tempo, strenuamente non contemporaneo, eppure così trasversale e mai vecchio. Le prime note di I Can’t Stop Loving You sono sufficienti a scaraventarci negli Stati Uniti degli anni ’50: puro country rock trattato con una voce in grado di far sanguinare il cuore. La successiva Whenever God Shines His Light è talmente bella che siamo quasi sul punto di convertirci. Poi ci ricordiamo del concerto degli Slayer, e resistiamo alla tentazione. E come si fa a non sorridere all’ascolto di Jackie Wilson Said (I’m in Heaven When You Smile)? Un’esplosione di gioia che ci ricorderemo per molto tempo.

Non vogliamo farci schiacciare dalla folla a fine concerto e lasciamo (a malincuore) il nostro nordirlandese, per trovare la splendida Angel Olsen. Non credo che lei ci aspettasse. Ma noi la aspettavamo, tanto. E la ritroviamo, bella, rock, cattiva, davanti ad una folla di ascoltatori attenti e conquistati dalla sua musica e dalle sue innumerevoli influenze. Ci godiamo solamente l’ultima parte del breve concerto che il Primavera le concede (un’ora esatta). La voce di Sister sembra derivare direttamente dalla sacerdotessa del rock, mentre la sua band la supporta perfettamente lasciandosi andare a potenti e lunghe digressioni dai sapori prog. La successiva Those were the days è una delicata poesia suggerita e dalla consistenza impalpabile. Never Be Mine è da pelle d’oca e dimostra, se qualcuno avesse ancora dei dubbi, la sicurezza di questa trentenne statunitense le cui canzoni accolgono sonorità blues e soul, mondi folk quasi dimenticati su indiscutibili panorami rock. La chiusura del concerto è dedicata alla lunga e lisergica Woman, vero e proprio viaggio nella musica, dai King Crimson agli Yes, alle sperimentazioni di Battiato (what?!), dai sentimenti blues della fine degli anni ’60 fino a lambire i mondi così lontani del solipsismo vocalistico di Meredith Monk o di Joan La Barbara.

Cinque minuti di pausa tra la fine del concerto e l’inizio di quello (fortunatamente proprio di fronte) dei Teenage Funclub, gruppo di cui avevamo perso le tracce da qualche anno. Il loro rock è grezzo, bello, schietto, privo di orpelli. Start e Don’t look back sono vecchie canzoni mantenute da un basso presente in maniera volutamente eccessiva, mentre i giri di chitarre si susseguono sempre uguali a se stessi creando una circolarità affascinante e anti-intellettuale. Qualche canzone nuova come la semplice Hold On, traccia che funziona perfettamente e che sembra legare questi scozzesi ai magnifici The Go-Betweens (un omaggio forse?). Piccoli racconti di quotidianità, che si sviluppano su di un crinale che separa una blanda malinconia e una spensieratezza giovanile. Nessun invecchiamento, solo qualche capello bianco in più, ma Norman Blake e Raymond McGinley sembrano non aver mai interrotto il loro discorso artistico. Lontani sentori surf (soprattutto in Thin Air), ed un rock sporco tratto sa ciò che di meglio ha prodotto la Gran-Bretagna negli anni ’80. Il pubblico è entusiasta: balla, si inebria di questa musica e si lascia andare ad un respiro nostalgico.

Ci godiamo tutto il concerto con grande tranquillità (moneta assai rara qui al Primavera), prima di recarci sotto il palco del Pitchfork per il concerto di Hamilton Leithauser. Dopo essere stato il frontman dei The Walkmen per tre lustri, il cantante e multistrumentista di Washington D.C. ha ripulito la sua arte dalle asperità per proporre una musica calda e affascinante. Quasi a voler cancellare il proprio passato (o, molto semplicemente, per giocarsi il tutto per tutto mettendosi in mostra come Hamilton Leithauser), l’artista propone un set completamente consacrato ai lavori recenti e, in particolar modo, all’ultimo I Had a Dream That You Were Mine (Glassnote, 2016), album concepito e realizzato con Rostam Batmanglij dei Vampire Weekend. L’entrata esplosiva è dedicata alla bellissima Rough Going (I Won’t Let Up), a cui seguono la leggera Sick as a Dog. Arriva poi il momento di A 1000 Times, canzone che potrebbe assurge tranquillamente ad inno generazionale (e sarebbe una gran bella generazione!) e che invade quella sezione del parco del Fòrum aperta sul mare. Restiamo ancora un momento per approfittare della sorprendente When The Truth Is…, dove fanno irruzione jazz e soul, inglobando anche l’aspetto vocale che diviene ossimorico, ruvido e vellutato, drammaticamente terreno e capace di involarsi lontano.

Cambio radicale di scenario. Ecco Seu Jorge solo su scena vestito da Pelé dos Santos del mitico team di Steve Zissou. Ci accolgono le note di Astronauta de Mármore, versione bossanova di Starman di David Bowie. La performance catalana di Seu Jorge è infatti dedicata al genio inglese e riprende, quasi per intero, l’album nato dalla colonna sonora di quello stranissimo lavoro filmico che è Le avventure acquatiche di Steve Zissou del 2004. La ripetività dei moduli musicali di Suffragette City anticipa il capolavoro Space Oddity, cantata da tutto il pubblico presente. Ed è qualcosa di straordinario e allo stesso tempo, memorabile, assistere a questo strano e commovente omaggio collettivo di un’icona senza tempo. Le primissime note di Life on Mars sono delicate e dimesse e, in un delicato crescendo, esse conquistano tutto il pubblico riunito intorno al palco del Ray-Ban. L’omaggio di Seu Jorge ci porta lontano, attraversando lingue, epoche, pianeti, per presentarsi come una perla magnifica, scontro anacronistico e topologico immemorabile.

Segue un sacrificio. Sì, decidiamo di perdere il concerto degli Arcade Fire (che avremmo visto due giorni più tardi a Lione) per un quartetto di scoperte, cose (meno) interessanti, e suoni arrabbiati: Sleep, King Krule, Wild Beasts, e Against Me! Iniziamo con gli Sleep ed è subito un profondo, lungo, terribile incubo post-metal. I tre cattivissimi americani (Al Cisneros alla voce e al basso, Matt Pike alla chitarra e Jason Roeder alla batteria) dipingono lunghi racconti plumbei (come in Holy Mountain e The Clarity), mostrando anche lati più aperti, ma pur sempre angoscianti, come in Aquarian. Il mondo sonoro degli Sleep ci ha accolto e avremmo potuto non lasciarlo mai, a causa della sua bellezza terribile, del suo afflato violento, ma riusciamo a distaccarcene (a malincuore), per andare all’incontro con King Krule. Arriviamo sulle note ebbre di Ceiling, sorta di mondo sonoro confuso e che sembra attirare sensibilità jazz, soul, rock, ma anche darkwave e molto altro. Segue The locomotive, altro pezzo ricco di influenze, vibrante, surreale, nel quale si introduce un fraseggio arrabbiato che si muove tra i mondi del punk e del rock alternativo. Ah, il ragazzo ha 22 anni.

Poi è il turno dei Wild Beasts, che ci lasciano un poco interdetti. Va bene la voce che suona a tratti come quella di Dave Gahan, altre volte come quella di George Michael, e una materia sintetica che ricorda i Pet Shop Boys, ma se un giorno pensassero di sostituire la voce e di eliminare le basi elettroniche, siamo certi che potrebbe uscirne qualcosa di carino. Li lasciamo divertire (oddio, che spocchiosi che siamo!) e ci dirigiamo verso il palco dell’Adidas Original, dove, qualche minuto dopo, apparirà la creatura della chitarrista Laura Jane Grace, gli Against Me!. Aspettandoli, spiamo dietro la struttura dell’Adidas e notiamo i quattro che si stanno scaldando e caricando per l’imminente concerto. E le note che accompagnano questo riscaldamento sono quelle (abbastanza sorprendenti) di Prisencolinensinainciusol di Adriano Celentano. Imbracciati gli strumenti parte immediatamente l’inno I Was a Teenage Anarchist a cui segue la rivendicazione sessuale e personale Transgender Dysphoria Blues. Il concerto di questi anarchici arrabbiati e scevri da ogni compromesso è, senza alcun ombra di dubbio, uno dei set più belli ed energici di tutto il festival. È una cosa meravigliosa e scalda il cuore vedere così tanto impegno e purezza idealistica che prende la forma di un punk che riesce a non suonare come vecchio e che riesce ad evitare il rischio di divenire ridicolo (ciao Green Day!).

Poi, durante il concerto, riceviamo una notifica sibillina: appuntamento alle 2.55 davanti al palco centrale del Ray-Ban. Lasciamo i meravigliosi statunitensi per seguire gli ordini dell’organizzazione del Primavera (ma anche per poter stenderci qualche minuto. Eh sì, la stanchezza inizia a farsi sentire). Il messaggio è stato ben compreso e una folle enorme inizia a raggrupparsi nell’arena. Aspettando l’annuncio e l’arrivo della misteriosa band, le supposizioni e i desideri si fanno strada tra la gente. Radiohead, Verve, Eels? Ok, mi sa che non ci siamo proprio. Cerchiamo indizi sul palco. Niente. Poi, puntualissimo, arriva l’annuncio: HAIM. Ok, la prima reazione è quasi universalmente condivisa: chi cavolo sono? Poi eccole comparire sul palco: le freschissime tre sorelle Haim, direttamente da un mondo sonoro imbarazzante. La sorpresa (e il fatto che fossimo nelle prime file, ben schiacciati dal pubblico) ci paralizza ma questa immobilità dura tre pezzi: Want You Back, Don’t Save Me, Little of Your Love, dopodiché il nostro corpo riprende mobilità e la volontà di lasciare il posto a qualcun altro prende il sopravvento. Un pop talmente soft e roseo da provocare l’orticaria. Forse siamo invecchiati così, improvvisamente, o, probabilmente, non siamo mai stati giovani. Delusi da questo concerto a sorpresa, ci avviamo verso l’uscita. Per noi il Primavera Sound Festival finisce qua. Felici, delusi, sorpresi, nostalgici, stanchi. Ma ci torneremo. Perché questo, nonostante tutto, è il più bel posto del mondo.

Primavera Sound Festival 2017
Parc del Fòrum
Muelle de la Marina Seca, C/ De la Pau, 12 – Barcellona (Spagna)
dal 31 maggio al 4 giugno 2017

programmazione completa
www.primaverasound.es