La danza che dis-chiude

Romaeuropa Festival, nella sezione Dancing Days, ha portato in scena una performance di rara bellezza, dove l’intenzionalità motoria si fa spazio: ritmi allusivi flettono i corpi, lo spirito diventa materia, la presenza torna a essere co-presenza. Un duo sorprendente, tecnicamente impeccabile, innovativo sul piano delle scelte coreiche e visive.

Quel che resta fa parte di un progetto multiforme, denominato Thauma, che pone la danza al centro della ricerca come immersione nel corpo, potenza del gesto e condizione di presenza. La tonalità emotiva dello stupore (in greco thaùma, per l’appunto) si manifesta attraverso lo sbilanciamento della postura, l’estasi corporea, la moltiplicazione degli sguardi e delle prospettive. Simona Bertozzi e Marta Ciappina danzano in coppia per tutta la durata della performance, una cinquantina di minuti circa, inspirando ed espirando la stessa aria, dando così vita a uno spazio ricurvo, decisamente non-euclideo. Il milieu che accoglie i loro movimenti non viene comunicato al pubblico nei termini di un contenitore o di un diagramma cartesiano, tracciato a priori, dove i gesti si troverebbero all’incrocio di precise ascisse e ordinate. Al contrario, è un campo che vibra col passaggio dei corpi e che si altera grazie alle loro torsioni posturali, giacché risulta da esse generato. Come osserva Merleau-Ponty, non si deve confondere il movimento con il pensiero del movimento né lo spazio corporeo con lo spazio rappresentato: “l’esperienza motoria del nostro corpo non è un caso particolare di conoscenza, ma ci fornisce un modo di accedere al mondo e all’oggetto, una ‘praktognosia’ che deve essere riconosciuta come originale e forse come originaria” (Fenomenologia della percezione).

Quel che resta instaura un’efficace corrente empatica con il pubblico che, sebbene “costretto” a rimanere seduto sulle poltrone della sala, è chiamato a sentire nel proprio corpo, o meglio nel corpo proprio (Leib), la dis-chiusura dello Spazio e del Movimento, forse anche grazie a un’eccezionale stimolazione dei nostri neuroni-specchio. Da notare che quello Spazio e quel Movimento sono gli stessi che abitiamo nella nostra vita quotidiana e che, tuttavia, solo la Danza riesce a valorizzare nella loro potenza originaria, liberandoli dalle incrostazioni di condotte stanche e routinarie o di sustruzioni intellettualistiche ed estetizzanti.

Assai articolata è la genealogia di esperienze e di riferimenti da cui discende il lavoro di Simona Bertozzi, peraltro sempre originale: dalle fantasmagorie illusionistiche di Loie Fuller alla danza anti-descrittiva e libera da schematismi di Martha Graham. Crediamo che l’artista bolognese si ispiri all’indagine archetipica promossa dalla coreografa statunitense negli anni Quaranta, arricchendola attraverso la recente collaborazione pluriennale con Virgilio Sieni, fautore di una ricerca sull’estesiologia del gesto in prospettiva comunitaria. Di Graham condivide la teoria-prassi del corpo come depositario del patrimonio mitopoietico dell’umanità. Per entrambe, la danza è “evocazione dell’intima natura dell’uomo. Attraverso l’arte, che trova le sue radici nell’inconscio – nella memoria del nostro genere – è la storia e la psiche del genere umano che viene messa a fuoco” (Martha Graham, Graham 1937).

Facciamo dunque nostra la formulazione che dà il titolo a questo lavoro, ma proviamo a volgerla in senso interrogativo: che cosa resta? Diceva Mallarmé che “la danzatrice non è una donna che danza” (Ballets), perché non è una donna, ma una metafora e perché non danza, ma scrive con il corpo. Anche Simona e Marta si trasformano sulla scena in un soggetto impersonale che non è mai se stesso, ma sempre altro da sé, la loro è una scrittura pre-verbale che dice senza significare, rimando alla pura circolazione del senso e dei sensi. Quel che resta è l’orizzonte di visione a cui siamo ricondotti da questo formidabile duo danzante: non quello che “vedrebbe un testimone della mia visione, o un geometra che la ricostruisse sorvolandola”, ma quello che vivo dall’interno e che mi ingloba, che parte “da me come punto o grado zero della spazialità” (Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito).

Lo spettacolo è andato in scena
Mattatoio/Teatro 2
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma

Quel che resta
concept e coreografia Simona Bertozzi
danza Marta Ciappina, Simona Bertozzi
musica Stravinsky, Diversions, Ray Chen, Timothy Young
soundscape Roberto Passuti
light design Giuseppe Filipponio
produzione Nexus 2021
con il contributo di Mic, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna
con il sostegno di Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e di Fondazione CR Firenze