Un Re Lear Freudiano

In scena dal 21 febbraio al 2 gennaio, l’allestimento di Baracco è fuori dai canoni del teatro elisabettiano: un Re Lear grigio che rappresenta più il mondo dell’inconscio freudiano che la follia delirante e il desiderio di potere del maestro Shakespeare.

Nel Re Lear – dramma della follia, del potere e del conflitto generazionale tra padri e figli – della compagnia Mauri/ Sturno, diretto da Andrea Baracco, ciò che s’impone immediatamente sullo spettatore è la monumentalità dell’impianto scenico e la grande scritta: King Lear. Il grigio che predomina nella scena di apertura sarà il colore permanente, il minimo comune denominatore di tutto lo spettacolo: cenere a simboleggiare le tinte dei malvagi e dei subdoli, che, tra bianco e nero, nascondono un doppio e falso io; come la nebbia che offusca la visione, simbolo del dominio razionale cui l’Occidente aspira, e porta alla follia; come tempesta nella quale si troverà Lear e come i resti di un regno disgregato dall’arroganza e dalla falsità..

La monumentale scenografia, elemento cardine dello sviluppo del plot e dell’azione in modo multifunzionale, rappresenta tanto il castello di Lear, quanto le dimore di Regan e Goneril, le stanze dei peccati carnali, la capanna di riparo durante la tempesta, l’altopiano da cui il Conte Gloucester crede di buttarsi, il luogo della morte di Cordelia. L’ascensore – usato per passare da un piano all’altro nei momenti nevralgici – è collocato nello stesso punto del trono di Lear e dove avviene l’esecuzione di Cordelia, ghigliottinata nell’ultimo atto.

Più della pedante e vistosa impalcatura (elemento alquanto caratteristico nell’estetica di Baracco) a farsi notare è l’unica elemento della scenografia che cambia, ossia proprio quel King Lear che diventerà solo King, come a rappresentare l’assenza di personalizzazione del vero Re, di come il regno stia aspettando di essere governato nel momento stesso in cui si sta sgretolando diventando follia.

Nessuno porterà più la corona, scagliata per terra da Lear-Mauri dopo la delusione avuta da Cordelia nella sua mancata – anzi, autentica – dichiarazione di amore. Non è un caso, allora, la presenza di un candelabro a forma di corona che sembra sovrastare tutti e non appartenere effettivamente a nessuno, finché non calerà dal soffitto fino per rinchiudere, come in una gabbia, il futuro sovrano.

Baracco chiede, dunque, esplicitamente se la corona è simbolo del carcere, allora il potere ci ingabbia? Edgar riuscirà a regnare o rimarrà anche lui schiavo di quelle stesse logiche?

Se la tragedia del Re Lear è un connubio riuscito di disparati elementi della drammaturgia shakespeariana, l’allestimento di Baracco sembra recuperare idealmente il teatro e le compagnie del primo Novecento, dopo che per tutto il Romanticismo ottocentesco il mito di Shakespeare era stato rivalutato, riadattato, ritradotto e messo in scena, in un clima cosmopolita e di riscoperta dell’animo umano contro le regole formali imposte dal razionalismo e dal classicismo.

Primo Novecento, dicevamo, gli anni di consapevolezza delle concezioni di Nietzsche e Schopenhauer e della teoria freudiana dell’inconscio: l’arrivo nel terzo atto di Lear, ormai completamente folle, su una sedia ha tutte le sembianze della seduta psicoanalitica non può essere una scelta casuale. Come non sono casuali i costumi, le giacche maschili, il cilindro del matto, i cappelli in pieno stile della Bella Époque. 

La recitazione, composta, pulita e ordinata con poco corpo in movimento, si allontana dal gioco (to play) shakespeariano senza però dare corpo e anima a una proposta alternativa convincente.

Assente la dimensione più subdola della malvagità nelle due sorelle – debole l’interpretazione di Linda Gennari (Goneril) e Aurora Peres (Regan), concentrate più su Edmund che sul desiderio di prevalere sul padre, di eliminarlo ed eliminare tutto ciò che ne limiti il campo d’azione; più naturale Emilia Scarpati Fanetti (Cordelia), seppure anche lei segua il modello piuttosto banale della sorella buona e della figlia sincera che però non osserva le regole; carente anche la pur positiva prova di Dario Cantarelli, al quale sembra mancare la prospettiva propria del fool, non riuscendo a restituirne l’ambivalenza del doppio (bestialità e spiritualità – sacro e profano), ma che con il suo cappello a cilindro ricorda il Cappellaio Matto di Lewis Carroll, che nel 1865 sembrava anticipare il mondo dell’inconscio e del sogno oltre lo specchio.

Dunque, se l’interpretazione complessivamente elegante e ponderata del cast che non riesce che ad approssimarsi alle sfumature più liminali della psiche shakespeariana dei personaggi, i momenti migliori di questo Re Lear appartengono di fatto alla premiata ditta Mauri e Sturno, a un modo di interpretare la follia capace di trasformare il grigio del palco nel surreale mondo delle passioni umane.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Eliseo

Via Nazionale, 183
dal 21 febbraio al 2 gennaio
Martedì, giovedì venerdì e sabato alle ore 20.00
Mercoledì e domenica ore 17.00

Re Lear
di William Shakespeare
regia Andrea Baracco
riduzione e adattamento Andrea Baracco e Glauco Mauri
traduzione Letizia Russo
con Glauco Mauri, Roberto Sturno
e con Dario Cantarelli, Enzo Curcurù, Linda Gennari, Paolo Lorimer, Francesco Martucci, Laurence Mazzoni, Aurora Peres, Emilia Scarpati Fanetti, Francesco Sferrazza Papa, Aleph Viola
Scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
Musiche Giacomo Vezzani e Riccardo Vanja
Luci Umile Vainieri
Fotografie di scena di Federica di Benedetto
Produzione Compagnia Mauri Sturno, Fondazione Teatro Della Toscana