L’arte e la politica

Intervistiamo Stefano Ricci e Gianni Forte, per la prima volta a Milano con Still Life. Massacro a cinque voci per una vittima, andato in scena al Teatro Elfo Puccini dal 9 al 14 dicembre 2014. Uno spettacolo denuncia al bullismo omofobico: «un omaggio per ricordare l’adolescente romano, uno dei tanti, che si è tolto la vita impiccandosi con la sua sciarpa rosa».

Iniziamo dal titolo. Still Life (2013). Che traduzione preferite? Natura morta o Ancora in vita? Mentre lo Stato muore, chi o cosa, tra le persone, le categorie sociali, le istituzioni, è ancora in vita oggi?
Ricci/Forte
: «La miopia culturale del tempo presente, l’incapacità di saper mettere a fuoco il vicino e il lontano, il senso delle cose oltre la loro apparenza, ci hanno veicolato verso un titolo che raccogliesse tale ambivalenza. Sopravvivere in uno Stato agonizzante e seguitare ostinatamente a riempire gli spazi con azioni che ci distraggano dal reale tanfo di morte, nel quale restiamo a galla senza sparare un bengala di soccorso alla nostra coscienza. Ecco che allora Natura Morta diventa una delle tante polaroid, lo studio di un artista che negli anni continua impercettibilmente, e inesorabile, a fotografare l’incresparsi dell’Oggi, il suo lento decomporsi. Allo stesso tempo, la riscoperta dell’essere Ancora in Vita, presuppone un awakening, un risveglio forzato per i giorni che restano. Still Life (2013) è il presagio di un abisso, nel quale tutti stiamo precipitando per inerzia; la pigrizia di uscire dal cerchio, metafora di un itinerario consunto e senza sbocchi. È l’assecondare con passo cadenzato la marcia circense, intrisa di lustrini, che ci conduce verso le fauci spalancate della tigre. Nessuna istituzione, nessuna categoria resta indenne dalla fuliggine indolente dell’approssimazione al benessere. Al centro del dissidio resta però il corpo, abitato, e la sua capacità di rinnovarsi attraverso le cadute. L’esistenza non è più visibile attraverso i suoi tratti essenziali e periferici. Il reale va riformulato e attraverso questa elaborazione, recuperarne il senso fenomenologico. Diventare noi stessi opere d’arte, non soltanto corpi infantili da soddisfare, filtrando il territorio multidimensionale che ci circonda attraverso lo strumento provvido dell’Immaginazione».

«Manifesto politico per uno stato che permette una strage e risponde con l’indifferenza» la vostra definizione di Still Life (2013). Cosa vuol dire fare teatro politico oggi?
R/F
: «Le metafore che proliferano nel nostro fare teatro, visive e testuali, sono le armi adottate per questa infinita battaglia stabilita dal nostro primo approccio come ensemble (Troia’s Discount, 2006). L’esperienza teatrale si trasforma così in un cerimoniale, una funzione ctonia che interagisce con la parte più profonda, occultata dietro la cortina concettuale. Il collegamento con la realtà spirituale collettiva diventa così uno strumento per fare politica, con regole e frantumazioni delle stesse che mettono in contatto l’ossigeno con una dimensione trascendente che arranca e una sintesi culturale di cui siamo impastati. La condivisione di un immaginario, il suo potere urticante attraverso gli alveoli diventa un elemento per superare la dimensione cronachistica e deflagrare con la sua forza politica, intesa come voce ricostruita per modulare vie di scampo».

Qual è stata la reazione del pubblico? Come ha reagito al vostro manifesto? Nel corso delle repliche, avete notato dei cambiamenti in tal senso?
R/F
: «L’abbassamento dei parametri rappresentativi, la dimensione emotiva spinta verticalmente provoca reazioni differenti nella platea. C’è chi si difende opponendo una ratio che è essa stessa contraccolpo: puntare i piedi per restare sui margini consueti della propria, consueta, perturbabilità o lasciarsi divampare dall’incendio di segni sono identiche chiavi di accesso con il proprio Sé. Strumentalizzazione (secondo alcuni frettolosi detrattori) o Identificazione (secondo molti altri), restano comunque rifrazioni binarie di una inequivocabile messa in gioco. Ed è questo innesco che di volta in volta genera nei performer la imprevedibile alchimia che fa di ogni performance un evento unico e irripetibile. Nei confronti di Still Life (2013) resta comunque invariata la totale adesione al progetto da parte degli spettatori, che percepiscono la frattura del sostrato della realtà individuale a vantaggio di un sentire collettivo che diventa immediatamente polis».

I ceri rossi, i cuscini, le piume, le maschere, il nudo, i calci, i baci, i grafici, i microfoni, la musica, le corse, i cuori, le lettere, e molto altro. Una densità concettuale e visiva del tutto necessaria per la manifestazione di questa urgenza?
R/F
: «Il processo di gestazione di una performance avviene lento e ponderato, con arresti e brusche impennate. C’è una frase di Brecht che dice più o meno così: “…è in prossimità dell’errore che sta la sua efficacia”. Dunque, il viaggio verso la realizzazione di uno spettacolo è pari all’attraversamento dello specchio da parte di Alice: i tentativi e i materiali utilizzati vengono gettati nell’arena, masticati, rifiutati o accolti. Ognuno di loro, però, a parte il valore concreto espresso, diventa metafora di una trasfigurazione visionaria di significato che ci riporta a quella manifestazione qualitativa denominata Fantasia, causa principale dell’odio manifestato dal gruppo per quell’individuo che ne è portatore sano».

Ci raccontate il retroscena che ha portato alla nascita di Still Life (2013)?
R/F
: «La cellula germinale, come tutto gli avvenimenti decisivi, nasce quasi per caso, da una committenza. Era da tempo che riflettevamo su quella cornucopia vitale chiamata Adolescenza, cuccioli di uomo che si affacciano alla vita e mettono a punto le intrinseche peculiarità per affrontare il mondo. Quello stop improvviso, quell’eliminazione dal gioco, quello scempio operato dal contesto, che porta all’autodistruzione a causa di una differenza ha trovato poi la sua strada nel momento in cui Rodolfo di Giammarco, direttore della storica rassegna Garofano Verde, ci ha incaricato di “siglare” il ventennale di una vetrina di teatro che negli anni si era fatta piattaforma per una drammaturgia che contemplasse i diritti lgbt. I venti anni di attività, che coincidevano con la risoluta chiusura dei fondi da parte di una città, Roma, sempre più sorda, Capitale di uno stato audioleso, davano alla performance un valore distinto dal suo apporto artistico: una testimonianza della pervicace resistenza artistica in un territorio avaro di difese verso le forme di espressione che non abbiano nel loro DNA un sigillo mainstream. Nell’estate 2013 si era appena consumato l’ennesimo atto di suicidio adolescenziale dettato da mobbing. Da questo trampolino è stata edificata la performance presentata al teatro Argentina di Roma, in quella che sarebbe dovuta restare una data unica. Una festa, per salutare l’ostinazione di un drappello di teste connesse a cuori e la fine di una luminosità culturale capitolina. L’impatto dell’evento ha trasformato la decisione iniziale: sospinti dalle richieste continue, abbiamo impiantato sostegni di titanio nelle gambe di Still Life (2013) tali da permettergli di correre lungo i perimetri europei. Da un anno e mezzo la performance continua a essere presentata ovunque, risvegliando in noi la stessa emozione e lo stesso senso morale che ci aveva spinto quella sera di fine Giugno 2013 a far esplodere il meraviglioso soffitto ligneo del teatro di Roma, con un respiro unico composto da centinaia di persone che affollavano la sala all’inverosimile, abitando ogni posto fino all’ultimo ordine di palchi».

In tutti i vostri spettacoli, la musica è imponente e diventa spesso protagonista. Qual è il suo ruolo scenico e drammaturgico? Come avviene la scelta musicale?
R/F
: «La musica è l’interprete aggiunto. Definisce lo spazio e interagisce con le traiettorie dell’indagine. Contribuisce a dare forma al processo creativo e, come i performer, è magma plasmabile: l’utilizzo della sua forma diventa – insieme allo stato emotivo che il tema genera associato ad una visione – corpo stesso. Così a volte il suo scheletro frammentario, associato per contrasto, sovrapposto, sommesso o esteso nella sua interezza, restituisce un respiro che, addizionato alla pioggia di segni, si esprime con la propria laringe. Il suo mutare trasforma lo spazio abitato. Ecco perché la musica entra in sala prove dal primo giorno. Vive con noi nelle improvvisazioni, fugge via, prende residenza part-time e finalmente si lascia incastonare alla fine del viaggio attestando l’equilibrio spaziale dello spettacolo. Anche l’intensità del suono, il suo volume, diventano lingua con i suoi sussurri e grida. Il rito si compie: il corpo della musica si impasta con lo spettatore che, filtrandolo con testo poetico e immagini, si abbottona in un unica rapsodia con il performer».

Per finire, da sette anni proponete una lettura dissacrante del contemporaneo. In Italia, c’è ancora una possibilità di “vita artistica” o non rimane che la memoria, magari la ricerca di un nome scritto su cartellone più o meno prestigioso?
R/F
: «Difficile dare risposte a un’utopia. Le nostre sono traiettorie di volo donchisciottesche. La carenza di fondi, la sindrome da abbandono spettatori che lascia insonni gran parte degli operatori, l’animosità e l’individualismo della classe artistica, i fallimenti autoreferenziali della critica, la chiusura dei teatri; una apocalisse tangibile che irrigidisce inevitabilmente le posizioni, arroccando ognuno in posizione di attacco, o difesa, ma comunque fisso nella sua immobilità. Che è il declino di qualunque forma espressiva. Non siamo così ingenui da credere nella possibilità di un futuro rivoluzionario per questo Paese ma, forse, è nella pervicace coerenza con la propria pupilla – nonostante amori e dissidi palesati che ne determinano la salvifica non unanimità – che resta il piacere rinnovato di aver scelto l’estasi mistica del fare teatro. Perché troppo spesso dimentichiamo, e qui torna prepotente il significato di Still Life (2013), che l’Arte è una delle tante forme della realtà».