Al Teatro Vascello si è tenuta la serata conclusiva del Roma Fringe Festival, che ha decretato lo spettacolo vincitore nell’ambito di una terna di finalisti scelta dai direttori dei dodici teatri che aderiscono a Zona Indipendente. Tra i numerosi premi conferiti, quello della giuria artistica, cappeggiata da Manuela Kustermann, e quello della stampa, assegnato da critici e giornalisti accreditati.

Roma Fringe Festival si conferma una manifestazione di innegabile interesse per chi vuole saggiare le tendenze del teatro italiano indipendente. Anche l’edizione 2020 ha saputo coniugare la pluralità dell’offerta con la qualità artistica, dando a più di venti compagnie la possibilità di calcare le scene del Mattatoio – La Pelanda tra il 6 e il 17 gennaio scorsi.

Al Teatro Vascello di Roma, la sera del 24, ha avuto luogo la finale del festival, al termine della quale sono stati assegnati numerosi riconoscimenti, cui Persinsala ha avuto il piacere di partecipare. Dopo avere assistito alle repliche dei tre spettacoli finalisti – nell’ordine: La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza, presentato dalla compagnia bergamasca Les Moustaches; S’accabadora proposto da Anfiteatro Sud di Cagliari; Antigone del romano Collettivo imperfetto (si veda la recensione di Ludovico Cantisani) – la giuria stampa è stata chiamata a esprimersi in merito all’originalità comunicativa e all’interesse culturale della proposta.

Per dovere di cronaca, ricordiamo che La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza ha ottenuto il premio come Miglior Spettacolo dell’edizione 2020 oltre che quello della stampa e il Premio Fersen per l’innovazione e la ricerca, riscuotendo un’evidente convergenza di giudizi. Il premio alla Miglior Drammaturgia è andato a Susanna Mameli per S’accabadora; il premio Spirito Fringe è stato assegnato a A quel paese, proposto sempre da Anfiteatro Sud, mentre quello come Miglior Attrice è stato attribuito a Viola Di Caprio per Monologo schizofrenico (commentato per noi da Daniele Rizzo).

Pur riconoscendo il valore della proposta drammaturgica vincente, che segnaliamo per la presenza scenica degli attori, sentiamo di non condividere appieno il giudizio di molti colleghi, che hanno ritenuto di dover premiare il lavoro più riuscito, sebbene quello fosse il compito della giuria artistica.

La breve discussione su quale fosse lo spettacolo migliore partiva da presupposti diversi e, pertanto, ci è subito apparsa improduttiva. Ha però avuto il merito di stimolare una riflessione su quali fossero i criteri che guidano le valutazioni di critici e giornalisti, in questo caso allineate con la giuria artistica e forse col gusto medio del pubblico. In effetti, dei tre finalisti ad avere ricevuto quasi unanimi consensi è il lavoro meno fringe, se con questo termine intendiamo ciò che è marginale o di nicchia. Sulla scia di Jacques Derrida, ci piace ricordare come il margine accolga tutto quello che è al di là del testo, al di fuori di esso.

Non è lo spazio bianco che protegge il senso delle pagine scritte, rendendole estranee all’incursione dell’Altro, ma esattamente l’opposto. Il margine eccede il testo e ne è il suo fuori, mettendo così in movimento il suo dentro: esso ricostruisce, denucleando un interno apparentemente compatto e smantellando le rigide opposizioni del dire. Collocandoci in questa prospettiva, ci siamo messi alla ricerca di una scrittura teatrale fringe, che traboccasse dai suoi bordi e che, proprio per questo, non fosse ancora (mai) compiuta.
La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza narra l’insanabile dissidio tra un padre e un figlio: il primo, contadino da generazioni, lavora duramente per sbarcare il lunario, rispettando le immutabili leggi della natura; il secondo, come scaraventato sulla terra da un altro pianeta, porta su di sé il marchio della differenza e dell’infamia. Con addosso il suo tutù rosa, sogna di fare il ballerino e di essere amato per quello che è, ma è costretto a rispettare l’interdizione paterna e, con essa, i tabù di una società agreste, fieramente chiusa su se stessa. Lo spettacolo sprigiona poesia e buoni sentimenti: commoventi i momenti in cui Ciccio danza, muovendosi con delicatezza sotto i riflettori, o quelli in cui i due fratelli si proteggono e si spalleggiano, pur essendo così distanti. L’incanto, a tratti visionario, è tuttavia ben lontano dal tradursi in catarsi; l’atmosfera rarefatta non si condensa in una presa di posizione o in un moto di condanna. L’operazione è tutta estetica, e poco politica: i suoi punti di forza risiedono nella linearità della trama e nella costruzione dei caratteri, nella semplicità del messaggio che arriva al destinatario in modo immediato. Al di là della bravura degli attori, che non è qui in discussione, o dell’invenzione di un inedito gramelot, un poetico mélange di veneto e di bergamasco, è il realismo magico che permea la rappresentazione a lasciarci sgomenti: come i soldati nella fortezza del Deserto dei Tartari vivono nell’attesa di una battaglia epocale, sempre di là da venire, così anche nella difficilissima vita di Ciccio Speranza tutto rimane com’è (e forse anche nella nostra).

La robusta struttura narrativa – liberamente ispirata a Le serve di Genet – e il controllato equilibrio formale, rafforzato dall’utilizzo del videomapping, sono gli assi nella manica di S’accabadora, tragedia gotica che ruota attorno alla figura semistregonesca di Antonia, impersonata dalla validissima Marta Proietti Orzella. Nella lingua sarda, s’accabadora significa colei che finisce: e, infatti, questa donna vestita di nero, con un abito simile a quello talare, è l’erede di una sapienza millenaria e di pratiche poco conosciute, solo di recente riportate alla luce dall’omonimo romanzo di Michela Murgia (2009). Di questa donna, che non solo aiuta i bambini a nascere ma anche i sofferenti a morire, lo spettacolo mette a fuoco il lato umano e personale, nell’ambito di un congegno drammaturgico, a un tempo, tradizionale e innovativo. L’incesto costituisce ancora una volta – come nella tragedia classica – il mysterium tremendum a partire da cui si dipana l’intera vicenda: Antonia è stata messa incinta dal padre e, per questo, viene abbandonata sull’altare. Da allora, diviene accabadora e decide di guadagnarsi il cielo, assumendosi il compito di fare in terra ciò che nessuno ha il coraggio di fare: dare il sollievo dell’eutanasia, quando la malattia non dà più alcuno scampo. A chiedere l’estremo gesto di pietà è, però, stavolta, Speranzedda, la sorella di Antonia, anch’essa vittima di abusi da parte del padre, che l’hanno spezzata per sempre e resa incapace di aspirare ad una vita normale. Del tutto meritato il premio come Miglior Drammaturgia conferito alla regista Susanna Mameli, che ha saputo comporre in una rappresentazione unitaria e coerente il plot narrativo, le struggenti musiche di Paolo Fresu, avvalendosi delle tecniche della realtà aumentata per proiettare sul fondale del palcoscenico le xilografie del maestro oranese Mario Delitala. Unico appunto: un utilizzo meno moderato di questa innovativa arte digitale avrebbe ulteriormente dilatato i confini temporali della rappresentazione, potenziandone gli effetti mistici e archaicheggianti.

Decisamente al di là delle canoniche unità aristoteliche di tempo, luogo e azione si colloca, invece, l’Antigone presentata da Collettivo imperfetto. Quello che per molti è un vistoso difetto, se non addirittura un’imperdonabile mancanza di forma artistica, è invece, parere di chi scrive, un valore aggiunto, e cioè la proposta di un intrigante rovesciamento prospettico, al netto di alcune ingenuità, sulle quali torneremo in seguito. Attorno ad una tavola imbandita, in una situazione informale, si trovano alcuni amici che – prima di impersonare i ruoli previsti dalla tragedia sofoclea – dialogano con il pubblico, offrendo vino e stuzzichini. L’increspatura del confine, altrimenti dato per scontato, tra il dentro e il fuori della rappresentazione coinvolge e incuriosisce, dispiegando un orizzonte di attesa e di potenziale sviluppo, che raramente si avverte a teatro, dove le parti sono assegnate in partenza. I commensali discutono di quanto è accaduto a Eteocle e Polinice, i due fratelli, figli di Edipo, morti durante il combattimento che li ha visti l’uno contro l’altro armati. Creonte, il re di Tebe, ha deciso di dare sepoltura al primo, trattandolo da eroe, e di negarla a Polinice, che della patria si è rivelato traditore. A poco a poco, grazie a slittamenti appena percettibili tra il presente e il mitico passato sofocleo, il simposio platonico lascia spazio allo spettacolo teatrale. Ci troviamo catapultati dentro alla tragedia, dove accadrà ciò che deve accadere, con tutti i suoi personaggi: dal già menzionato Creonte alla ribelle Antigone, da sua sorella Ismene a Emone, suo promesso sposo e figlio del re di Tebe, da Euridice, sua madre, all’indovino Tiresia. La posta in gioco è ampiamente nota: la legge dello Stato (nómos) ha il diritto di imporsi sulla legge del sangue (phýsis)? Il rispetto del ghénos viene prima del rispetto della pólis? Uno dei passaggi più interessanti dello spettacolo è quello in cui Creonte espone i motivi della sua decisione ad Antigone, mostrandone l’assoluta cogenza razionale. Antigone, però, incarnazione di una tipologia di donna non sottomessa al potere maschile, continua a difendere le ragioni della fratria e del cuore, alludendo all’esistenza di un ordine morale più alto. Si tratta di un dialogo tra sordi: se le norme che ci siamo dati per vivere nella pace e nel benessere non sono umane, è lecito rifiutarsi di seguirle? Di fronte alla morte, che strappa tutti i legami, o alla possibilità di salvare delle vite, non siamo forse tutti fratelli? Collettivo imperfetto ha avuto l’indubbio merito di attualizzare l’Antigone sofoclea, collocandola sulla strada della sperimentazione metateatrale e distillandone il linguaggio auratico. Non sono queste le imperfezioni della compagnia romana, e neppure l’assenza di una trama compatta o la scelta di recitare in parte improvvisando a partire da un canovaccio: tutti questi, semmai, ne sono i punti di forza. I limiti risiedono nel registro a tratti isterico con cui Antigone, e altri personaggi, hanno impostato la loro performance o nell’avere pensato di conseguire un effetto drammatico ricorrendo a gesti scomposti e irruenti, come lo sbattere ripetutamente sul tavolo un bastone allo scopo di ridurre in poltiglia tutto ciò che vi si trova sopra. La tragedia di Antigone, con la sua interminabile sequela di dolori e di lutti, sfiora il nonsense, ma è tutt’altro che spettacolare. L’assoluta integrità di Antigone, che a volte sembra lambire la megalotimia, ci lascia interdetti e continua ad interrogarci in silenzio.

Gli spettacoli sono andati in scena
Teatro Vascello

Via Giacinto Carini 78, Roma

Les Moustaches di Bergamo presenta
La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza
drammaturgia Alberto Fumagalli
regia Ludovica D’Auria, Alberto Fumagalli
con Giacomo Bottoni, Francesco Giordano, Antonio Orlando
costumi Giulio Morini

Anfiteatro Sud di Cagliari presenta
S’accabadora
liberamente ispirato a Le serve di J. Genet
regia e drammaturgia Susanna Mameli
con Annagaia Marchioro, Marta Proietti Orzella
musiche Paolo Fresu
soggetto e regia video Susanna Mameli
produzione videomapping e realtà aumentata Michele Pusceddu, Francesca Diana
scene Susanna Mameli

Collettivo imperfetto di Roma presenta
Antigone
regia e drammaturgia Alessandro Anil
con Sofia Taglioni, Giovanna Serratore, Francesco Lamantia, Piero Cardano, Angelica Prezioso
luci e tecnica Roberto Di Maio