Ritratti d’Autore

Proseguiamo la nostra chiacchierata con Lino Musella, iniziata sulle pagine di Inthenet, partendo da quel modellino del San Ferdinando che – nello spettacolo Tavola tavola, chiodo chiodo – ci ha tanto colpiti: d’un tratto al volto di Eduardo De Filippo, capocomico, che cerca di racimolare i fondi per restaurare il ‘suo’ teatro (acquistato con 3 milioni di Lire nel ʻ48), distrutto dai bombardamenti del ʻ43, si sovrappone il volto ancor più scavato di Luca Cupiello che pare impegnato a costruire, come ogni Natale, il ‘suo’ Presepe. Al modellino del teatro si sovrappone l’immagine delle assi e della colla che dovrebbero accogliere Magi e pastori. E poi, in controluce, è lo stesso Musella a riemergere, attore e regista, autore e nostro contemporaneo, che  ci invita a raggiungerlo su quel palco per inventarsi un teatro (come afferma su InTheNet) di cui ci si senta tutti compartecipi.

Come ha lavorato su più piani narrativi – intrecciando personaggi – per renderli contemporaneamente?
Lino Musella: «Tutto è iniziato dallo studio molto intenso dei materiali, che mi ha fornito Maria Procino [da anni responsabile di progetti di recupero, riordino e valorizzazione di archivi di donne e di personalità della nostra cultura. Ha pubblicato Eduardo dietro le quinte. Un impresario capocomico attraverso cinquant’anni di leggi, sovvenzioni e censura. 1920-1970, Roma, Bulzoni 2003, ndr]. Inizialmente la mia intenzione era di fare uno spettacolo totalmente politico, in cui eliminavo tutto ciò che era il teatro e la vita di Eduardo, raccontando soltanto le sue istanze politiche. Ma più studiavo i materiali e più mi rendevo conto che nella vita di Eduardo, come di altri grandi artisti quali Eduardo Scarpetta, suo padre, tutto era indissolubilmente legato. A misura che entravo nei dettagli biografici, e li connettevo a lettere e a testi, comprendevo che De Filippo, come altri, era una di quelle persone che alternano teatro e vita, teatro e affetti, teatro e politica – e poi ancora e sempre teatro. Impossibile scindere i tre aspetti – quello personale, quello artistico e quello politico. E alla fine ho deciso, sulla scena, di passare disinvoltamente tra le sue opere. La caccia alla citazione, non la faccio per il pubblico bensì per me: è un mio gioco. Pensiamo, ad esempio, al cilindro – che è sia l’oggetto di scena sia un rimando a Sik-Sik l’artefice magico. Assumo addirittura delle posizioni precise durante lo spettacolo ma – ammetto – lo faccio senza nemmeno rendermene conto.».

Tavola tavola, chiodo chiodo non è teatro di narrazione, dato che lei non è un narratore esterno. Lei è Eduardo e non ha nemmeno bisogno di presentarsi come tale.
L. M.: «Cito il nome Eduardo solo quando lui parla ai giovani carcerati e dice che va bene se lo chiamano ‘zio’, “ma non è più bello Eduardo?”. In pratica è come se avessi assorbito una serie di cose per tutta la vita e, a quarant’anni, mi sia finalmente detto: “Dai… tranquillo, adesso lascia che riemergano!”. Ovviamente sono diluite in quella che è la mia espressività – maturata negli anni – e però, ho deciso di non frenare oltre ciò che è stato per me questo grande modello. In altre parole, con questo spettacolo, ho superato con naturalezza tutte le resistenze che avevo frapposto perché, pur essendomi formato sul modello eduardiano, avevo poi provato ad abbandonarlo per affrontare Shakespeare e tutti gli altri autori. La verità, d’altronde, è che alcune cose ti restano incollate addosso e, in questo caso, ho provato a togliere il ‘freno a mano’ e a lasciarmi andare».

Si respira una vera artigianalità in Tavola tavola, chiodo chiodo. Un uso degli oggetti non ridondante, come in Troia City, la verità sul caso Aléxandros. Voluto?
L. M.: «Il mio uso degli oggetti non è propriamente una scelta poetica però, come attore, mi diverto a muovermi tra due piani pressoché opposti. A volte mi interessa concentrarmi sull’immobilità e il testo, ossia scegliere un testo di fronte al quale l’attore debba quasi annientarsi per lasciare interamente la scena alla parola. Altre volte, mi oriento verso un piano dissociativo, in cui l’attore gestisce, da una parte, dei significati verbali e, dall’altra, costruisce qualcosa, oppure danza – ma non descrive, in quanto non amo il gesto descrittivo. In parole semplici, è come se il movimento viaggiasse su un piano parallelo rispetto a quello verbale. La dissociazione, per me, è uno tra gli strumenti che ogni attore dovrebbe possedere ed è l’esatto contrario di quanto insegna Amleto al primo attore, ossia: “accorda l’azione alla parola e la parola al gesto”. E invece, praticando la scena, si comprende che il recitare è anche atto dissociativo. Il gesto, in qualche modo, deve fare da sostegno alla parola ma ricordiamoci che, in teatro, lo spettatore può guardare dappertutto, cosa che il cinema non consente dato che è il regista a guidare il nostro sguardo. Al contrario, io so molto bene che quando lo spettatore è in sala può anche svagarsi, distrarsi o concentrarsi su un dettaglio della scena e, quindi, è l’attore che, in qualche modo, deve essere ‘dettagliato’».

Negli ultimi due anni il teatro è stato definito ufficialmente ‘attività inessenziale’. Al pari di scuola, cultura e delle arti in generale. Le persone non hanno protestato. Anche chi fa teatro, promessi i ristori, si è subito ‘messo il cuore in pace’. Serve davvero il teatro?
L. M.: «Farò una riflessione che si contraddice da sola. Durante il primo lockdown, avevo un pensiero ossessivo e, non avendo alcun profilo social, lo ripetevo a chiunque parlassi al telefono. Da una parte, credo che quello che dovrebbe essere fatto in Italia è un protocollo d’intesa tra il Ministero dello spettacolo e il Ministero dell’istruzione. Il teatro deve entrare nelle scuole e deve entrarvi come materia di studio – non solo per salvare il teatro ma anche la scuola. Io non ho figli, ma ho molti nipoti, oltre a ricevere diversi feedback da parte di adolescenti e pre-adolescenti, e a ricordare com’era la scuola per uno studente, come me, che aveva delle difficoltà. E le vere difficoltà nell’apprendimento risiedono nell’incapacità della scuola – dalle elementari fino al liceo – di creare un collante tra le varie materie. L’interdisciplinarietà non è una parolaccia: è un metodo che funziona in quanto, attraverso una materia, si aprono più discorsi contemporaneamente. Il teatro ti permetterebbe di fare questo e sono convinto possa servire moltissimo all’istruzione. D’altra parte, però – e qui sta la contraddizione – chi fa teatro non si occupa di cultura. La parola cultura porta con sé un’idea di colonizzazione, di violenza, di volersi imporre all’altro da sé, sostituendosi. È una parola ambigua. Mentre chi fa teatro si occupa di umanità, come chi si interessa dell’ambiente, della pace nel mondo e, in breve, di far avanzare lo spirito umano».

Molti temono che i teatri si stiano svuotando. Lei lo ha notato?
L. M.: «Posso dire di aver avuto la fortuna, come altri colleghi, di non andare incontro a sale vuote bensì pienissime. Gli ultimi giorni di repliche al Teatro Vascello di Roma, sono venuti molti produttori cinematografici – dato che ho lavorato un po’ anche nel cinema – e ricordo quanto fossero sbalorditi della presenza nutrita del pubblico, nonostante loro siano abituati a ben altri numeri! Se penso a quel pubblico mi viene da credere che l’esigenza del teatro sia tuttora viva. Qual è la differenza in questo momento? Prima, molti andavano a teatro solo perché era una convenzione; adesso la gente si informa e vuole sapere cosa andrà a vedere perché, se deve stare due ore con la mascherina, pretende almeno di avere delle garanzie! Questo è ciò che ho verificato personalmente, come ho verificato che la situazione nelle grandi città è migliore che in provincia. Ciò che la nascita dei Teatri Nazionali ha causato, in negativo, adesso si palesa. All’inizio, noi attori che giriamo non ci rendevamo conto che la situazione in provincia si stesse talmente deteriorando, ma adesso il vuoto è palpabile: il pubblico è abbandonato a se stesso ed è difficile rinnovarlo. La nascita dei Teatri Nazionali ha peggiorato la situazione e i risultati di tali scelte politiche sono ormai sotto gli occhi di tutti».

Foto di Mario Spada: Lino Musella durante una scena dello spettacolo, Tavola tavola, chiodo chiodo