Ritratti d’autore

Il direttore artistico della Fondazione Pontedera Teatro è Roberto Bacci, un regista che dopo quarant’anni di attività ha ancora voglia di Scendere da cavallo e confrontarsi con giovani autori e interpreti, che ha il coraggio di rivendicare la leggerezza perché: «se un bambino si annoia significa che allo spettacolo manca qualcosa» e che, degli incontri con Grotowski, ricorda che non parlavano: «di teatro bensì di filosofia, di ricerca individuale, di politica» – di quell’universo-mondo che sembra la sua visione di un teatro necessario.

La Fondazione Pontedera Teatro compirà a breve 40 anni. Un bilancio complessivo sul recente passato?
Roberto Bacci: «La cosa più importante di questi 40 anni, e anche la più difficile, penso sia stata quella di non farsi divorare da un’istituzione che è andata via via crescendo, come importanza, dimensione e notorietà, ossia cercare di non perdere le aspirazioni dell’inizio, proprie di un gruppo di persone motivate a livello personale, che credevano – e, spero, credano ancora – di poter fare del teatro un momento di crescita, di conoscenza, di relazione feconda, utile e necessaria con il mondo che ci circonda. Il teatro non è semplicemente un prodotto o la produzione di spettacoli ma una domanda aperta sul senso dell’essere uomini».

Dal 1986 una parte del vostro impegno è dedicata al Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Cosa è rimasto dell’insegnamento di Grotowski?
R. B.
: «Posso rispondere solo per me. Degli incontri avuti con Grotowski, delle nottate trascorse insieme a parlare non di teatro bensì di filosofia, di ricerca individuale, di politica, mi è rimasta una forma di educazione al pensiero. Sembra un’affermazione strana ma tale non è. Al contrario è molto concreta: significa capire come si può passare da un livello automatico di pensiero quotidiano a uno più articolato, in cui anche il linguaggio diventa una forma di scoperta e un momento di riflessione».

Come convivono i teatri che vogliono darsi il tempo per pensare e non solamente per produrre con i tagli al bilancio e al Fus operati dagli enti locali e a livello nazionale?
R. B.: «Viviamo il paradosso di essere grandi – per attività, capienza e relazioni – in un luogo piccolo seppur importante, come Pontedera. E abbiamo difeso la nostra autonomia di scelta e artistica gestendo la questione economica in maniera intelligente, grazie a un’équipe al massimo in quanto a potenzialità ma al minimo come numero di elementi. Come teatro riconosciuto quale centro di eccellenza riceviamo comunque contributi sia a livello nazionale sia regionale e provinciale. L’handicap è la mancanza di finanziamenti privati».

Ad aprile la Compagnia del Teatro Nazionale Rumeno di Cluj Napoca riproporrà, a Pontedera, la sua regia di Amleto. Quali i pro e i contro nel lavorare con artisti di diversa nazionalità e lingua? E ancora, Amleto torna prepotentemente in scena: lo ripropongono, per esempio, Quelli di Grock a Milano, mentre Danio Manfredini ne ha presentato una versione personalissima a SienaFestival. Come si è rapportato lei con questo testo?
R. B.: «Mi ricordo che in Romania, ogni volta che chiedevo se ci fosse bisogno di traduzione per spiegare qualche passo o movimento agli interpreti, mi sentivo rispondere che non ce n’era bisogno. Primo perché sono attori davvero bravi, intelligenti, preparati, pronti a tutto. Secondo, perché se proprio necessario, c’era il traduttore o si parlava in inglese. Per quanto riguarda Amleto, non dimentichiamo la versione di Timi – che è stato anche nostro allievo. Il mio spettacolo ha girato molto all’estero: è stato in Brasile, in Polonia. Un Amleto un po’ bizzarro, interpretato in Romania da un giovane divo in un teatro da mille posti che registra il tutto esaurito, sempre – come noi, in Italia, possiamo solo sognare».

Vedo che torna sul palcoscenico Mutando Riposa della Compagnia Laboratorio di Pontedera. Uno spettacolo, del quale firma la regia, per soli 20 spettatori: eredità delle sperimentazioni degli anni 70 o in linea con progetti internazionali come quelli di Cuocolo-Bosetti?
R. B.: «Avevo già sperimentato, in passato, la regia di tre spettacoli per soli 5 spettatori con tecniche “per vedere e non per essere visti”. Ma non mi chieda di spiegare perché ci dilungheremmo troppo. Di quegli spettacoli facemmo anche una sintesi video per la Rai. Oggi, questa scelta in Mutando Riposa è dovuta allo spazio, chiuso, nel quale si svolge l’azione: un giardino con quattro pareti, un tetto e un prato – tutto avviene in una specie di scatola. Il progetto è nato da una domanda sull’origine della coscienza. Abbiamo fatto un viaggio in Tanzania sulle tracce dei primi esseri umani, e infine abbiamo costruito quest’azione con due attori, molto bravi, che potremmo definire uno spettacolo poetico sulla morte: commovente, reale, che ha bisogno della vicinanza fisica ed emotiva tra interpreti e spettatori».

A chiusura di Stagione arriva un Peter Brook “dotato di leggerezza”, unito all’effervescenza del miglior Mozart, nello spettacolo Un flauto magico. Il gioco del teatro: può essere questa una chiave per conquistare il pubblico più giovane abituato ai ritmi televisivi?
R. B.: «Il teatro deve essere un momento di riflessione ma deve possedere anche un altro livello -oggettivo, reale – che dia modo allo spettatore di lavorare, di partecipare attivamente, perché altrimenti si annoia. Comprensione, quindi, ma anche quel gioco che fa avvertire il sottotesto. Persino un bambino dovrebbe comprendere uno spettacolo altamente filosofico e divertirsi. Questo per me è fondamentale: se un bambino si annoia significa che allo spettacolo manca qualcosa, che non è vivo, ma contiene una parte di incomprensione propria dell’autore verso ciò che ha fatto e spaccia per intelligenza. Il gioco del teatro è una specie di labirinto nel quale ci si deve divertire perdendosi, lasciandosi guidare. Ogni spettacolo deve possedere una propria leggerezza: il che non significa essere frivoli».

Nel vostro futuro vedo 50 spettatori da adottare. Ci spiega il perché di tale iniziativa e cosa offrirete in concreto a questi abbonati?
R. B.: «Faremo un viaggio, con questi 50 spettatori, all’interno della cultura del teatro così da far loro capire che il teatro non è lo spettacolo così come la vendemmia non è la bottiglia di vino. Il teatro è una forma che l’uomo si è data nei secoli per riflettere e per raccontare storie. La cosa importante sarà mostrare a queste persone quanto c’è dietro l’esperienza teatrale: i processi che la compongono».
L’ultima domanda riguarda il progetto Scendere da cavallo, che lei dirigerà. Vuole spiegarcelo?
R. B.: «Il progetto nasce da una mia esigenza, quella di capire come ragionano le Compagnie più giovani. Mi sono chiesto perché non domandare loro di incontrarci in una situazione intima – senza problemi di produzione o vendita di uno spettacolo o di competitività per un premio – perché ogni Compagnia mostri alle altre come lavora: dalla scelta del testo alla messinscena all’interpretazione degli attori e così via. Naturalmente mi metterò in gioco anch’io e sarò il primo a “scendere da cavallo”».