Riforma del Fus: ripartiamo da zero

A Bologna, il 29 e 30 giugno si terrà un incontro plenario per il settore produzioni danza, che vede tra i suoi promotori, Roberto Castello, coreografo, danzatore e direttore artistico di Spam! Con lui abbiamo cercato di capire lo stato della danza contemporanea, partendo dalla Riforma del Fus del 2014: «Il pensiero di fondo che riconosco in questo decreto è che le leggi e i regolamenti del teatro italiano debbano essere fatti sulla base dei rapporti di forza. Io ho una visione della politica diametralmente diversa. Rifiuto e trovo immorale questo modo di pensare la vita sociale». E aggiunge, entrando nel merito delle problematiche: «Siamo arrivati al delirio della multidisciplinarietà come categoria». Ampliando il discorso, Castello spiega il perché della disaffezione del pubblico: «Il teatro contemporaneo troppo spesso sembra, purtroppo, il risultato del lavoro di una ristretta cerchia di pseudointellettuali borghesi, incapace di rendersi conto della fortuna che ha nel potersi gingillare con le cose dello spirito, e che manca di rapporti con la realtà». E rivendica un pensiero critico, politicamente e socialmente impegnato, sul quale ha fondato anche l’esperienza di Spam!: «Il teatro, al contrario, è un anticorpo naturale alla creazione del pensiero unico».

In Italia ci sono forse troppe sigle. Per il pubblico, molte non significano nulla. Cosa rappresentano, quindi, AIDAP e AGIS?
Roberto Castello: «L’AIDAP è l’Associazione Italiana Danza Attività di Produzione e aderisce a Federdanza, che a sua volta fa parte dell’AGIS, l’Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, i cui soci operano nel campo cinematografico, teatrale, coreutico, eccetera. La mia percezione storica dell’AGIS non è positiva, soprattutto per quanto concerne il mio settore, tenendo anche conto che, prima dell’arrivo di Walter Veltroni, non esisteva una commissione ministeriale per la danza, ed era quella della musica a esaminare i progetti e a valutare le esigenze delle Compagnie. Inoltre, sebbene il Parlamento e il Governo rifiutino di prendere in considerazione le istanze di qualsiasi altro aggregato che non faccia parte di AGIS, quest’ultima considera se stessa un’associazione che lavora in favore dei soci e non ha l’obbligo, né legale né morale, di rappresentare l’intera categoria. Ecco, quindi, che l’interesse di una parte può legalmente prevalere, anche se la voce dell’Associazione non rappresenta l’intero settore della danza ma solamente gli interessi dei soci. Di conseguenza, è il rapporto di forza tra questi ultimi a determinare il futuro della danza a livello normativo e di contributi statali».

Perché convocare un incontro plenario sulla danza, il 29 e 30 giugno a Bologna?
R. C.: «Io penso che non tutto ciò che è lecito sia giusto. Sia nella vita che nel mio lavoro. Faccio una piccola premessa. Attualmente in AIDAP ci sono persone degne che, compatibilmente con le difficoltà burocratiche e normative, sono animate dalle migliori intenzioni. Per come è strutturata l’Associazione, le stesse non hanno gli strumenti materiali e tecnici per conoscere e valutare le situazioni reali. Questo perché ad AIDAP possono aderire solamente le Compagnie ma, per come è strutturata la danza italiana, ne esistono poche. Infatti, il tessuto vitale della danza è composto da associazioni che si fanno riconoscere come Compagnie ma non hanno né le strutture, né i mezzi finanziari, né il tempo per partecipare alla vita associativa. Per non parlare della miriade di artisti freelance, che lavorano anche all’estero e che non possono aderire all’Associazione. Tornando a Bologna, il nostro obiettivo è di rendere possibile l’incontro, che tengo a sottolineare sarà del tutto informale e assembleare, tra le persone di AIDAP, che devono interfacciarsi con il Ministero dei beni e delle attività culturali, e i performer e le Compagnie medie e piccole, che non possono aderire ad AIDAP».

Come valuta quest’ultima riforma del Fus, che ha premiato ancora di più il botteghino, distribuendo i fondi in base a scelte quantitative invece che qualitative?
R. C.: «Tengo a precisare che parlo a titolo assolutamente personale. Il decreto del 2014, che è entrato in vigore l’anno scorso, secondo me è stato una sciagura. Non tanto per aver prodotto effetti negativi, dato che ne ha prodotti anche di positivi. Quanto perché è frutto di un pensiero politico radicalmente sbagliato. E non è possibile che, partendo da un presupposto sbagliato, si possa addivenire a una soluzione corretta del problema. Mi spiego meglio. Il pensiero di fondo che riconosco in questo decreto è che le leggi e i regolamenti del teatro italiano debbano essere fatti sulla base dei rapporti di forza. Io ho una visione della politica diametralmente diversa. Rifiuto e trovo immorale questo modo di pensare la vita sociale».

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Cosa auspica, nel 2018, quando verrà ridiscussa la Riforma del Fus?
R. C.: «A parer mio, bisognerebbe cancellare tutto. Il decreto di riforma del Fus del 2014, la Legge 800/67, le normative approvate negli anni, andrebbero eliminati e si dovrebbe ripartire da zero. Occorrerebbe un sistema completamente diverso. Innanzi tutto, esiste una frammentazione in categorie, per l’assegnazione dei fondi ministeriali, che non ha senso. Ci sono categorie con finanziamenti considerevoli, magari concernenti un numero limitato di realtà, che ricevono contributi consistenti. Mentre ne esistono altre, con fondi limitati o un numero di realtà elevato, che ottengono fondi risibili. Cui prodest? Faccio un esempio concreto. Il lavoro che fa il Piccolo di Milano e quello che facciamo noi, a Spam!, è lo stesso. È logico che debba esistere una proporzionalità nell’intervento ma se due realtà producono entrambe spettacoli, offrono ospitalità e fanno formazione del pubblico, in che cosa differisce la loro mission? Perché deve essere così sideralmente diverso il modo in cui io mi rapporto con gli Enti finanziatori rispetto a un’altra struttura? Logicamente, Spam! non vuole e non può competere con il Piccolo. Ma il punto è un altro: perché dobbiamo essere ascritti a categorie differenti? Siamo arrivati al delirio della multidisciplinarietà come categoria».

Venendo a SPAM. Com’è nata l’idea di occupare questo spazio e proporre prosa e danza contemporanea in realtà piccole come Porcari o Ponte a Moriano?
R. C.: «Questa domanda non mi era mai stata posta. Diciamo che la scelta è stata determinata dalla somma di più fattori. Innanzi tutto, sebbene la mia storia professionale all’interno della danza contemporanea italiana sia tutt’altro che marginale, la danza contemporanea lo è talmente rispetto al contesto sociale, politico e massmediatico, che nemmeno se fossi stato il migliore, questo mi sarebbe stato riconosciuto dagli interlocutori istituzionali. Cercare, quindi, di competere con realtà radicate in ambito metropolitano, pensavo fosse una partita persa in partenza. In secondo luogo, ho scelto di venire a vivere in Toscana quasi trent’anni fa e non mi sono mai pentito, anche perché penso che questo territorio possa vantare una grande civiltà e un tessuto sociale sano, dove il rapporto con il potere politico è altrettanto sano. E questo anche a livello di amministrazioni locali. In terzo luogo, essendo la normativa della danza storicamente emanazione delle norme sulla musica e non sulla prosa, per molto tempo ha fatto riferimento alla Legge 800/67. Di conseguenza, molte opportunità che sono state date agli Stabili di innovazione o al teatro ragazzi, a noi del settore sono mancate. E le Compagnie di danza sono rimaste di giro, in un sistema che non prevedeva per loro l’ospitalità. La danza, quindi, si produceva ma non si distribuiva e, come corollario, negli anni non è stata in grado di formare un proprio pubblico. Basti pensare che già nel 1994, in un verbale dell’Acai, un’associazione di coreografi e danzatori, si ragionava se fosse il caso di avviare una battaglia politica affinché le Compagnie di danza avessero la possibilità di radicarsi, sia diventando potenziali acquirenti di spettacoli che formando un pubblico competente. Da allora sono dovuti passare diciannove anni per avere la prima legge regionale sulle residenze, che accogliesse questo principio, promulgata proprio in Toscana. Nel 2013, sapevo che la battaglia diventava pretendere un meccanismo di legge che desse alle Compagnie le risorse per fare il lavoro di radicamento, a condizione che fossero capaci di coinvolgere gli Enti locali. Quindi, sommando tutte queste considerazioni, e trovandomi in Lucchesia, la scelta era fra entrare in città o restarne ai margini. Non conoscendo le dinamiche artistiche all’interno delle Mura, ho valutato che essere molto forte rispetto al territorio nel quale mi insediavo mi mettesse nelle condizioni più favorevoli per affrontare un percorso di crescita. E, oggi, se una serie di cose andranno a buon fine, direi che il nostro percorso di avvicinamento alla città si sta finalmente compiendo. Diciamo che ci siamo guadagnati la fiducia dei nostri interlocutori istituzionali, a tutti i livelli, attraverso il nostro agire, e la capacità, giorno dopo giorno, di costruire un pubblico competente e numeroso ».

Lei avverte uno scollamento tra il pubblico e il teatro contemporaneo? E, se sì, a cosa attribuisce questa disaffezione?
R. C.: «Le Compagnie sovvenzionate hanno, secondo me, l’obbligo civile, prima ancora che professionale, di restituire alla collettività qualche cosa. E se io programmo uno spettacolo, pagando il cachet con i soldi dei contribuenti, al quale vengono dieci persone, sto finanziando evidentemente un fenomeno di nicchia, elitario, che non merita di essere finanziato proprio per questa ragione. Il teatro contemporaneo troppo spesso sembra, purtroppo, il risultato del lavoro di una ristretta cerchia di pseudointellettuali borghesi, incapace di rendersi conto della fortuna che ha nel potersi gingillare con le cose dello spirito, e che manca di rapporti con la realtà. Così come anche la classe politica, di sinistra, si è allontanata dal mondo reale del lavoro. Entrambe sono diventate incapaci di parlare con i cittadini, e hanno lasciato che la televisione si rivolgesse alle masse. Noi abbiamo derogato al nostro compito, considerandolo triviale, per occuparci di argomenti elitari, pretendendo di essere finanziati per fare sostanzialmente quanto interessa solo alla nostra cerchia ristretta. Dall’altro canto, dobbiamo superare la logica che il pubblico comperi il diritto a intrattenersi. Di teatri, anche Stabili, che rispondono a questa logica è piena l’Italia. Questo avviene perché, essendo il loro referente l’amministrazione pubblica, che è composta da politici non necessariamente consci di cosa sia il teatro, l’unico dato che abbia valore è il tutto esaurito. Di conseguenza, spesso si spendono grosse cifre solo per avere nomi famosi, che non si ripagheranno mai con lo sbigliettamento, ma che riempiono il teatro. Il pubblico, al contrario, dovrebbe essere incuriosito, non dovrebbe essere mai certo di quanto ha comperato. Perché la dinamica del sapere si basa sull’incontro con un qualcosa che prima non si conosceva. Spam! è nato per affermare che il teatro contemporaneo è tutt’altro. Il lavoro di Andrea Cosentino o di Antonio Rezza – che stimo enormemente per la sua capacità di parlare al pubblico e che ospito a Spam! – nasce proprio da questa umiltà nei confronti del lavoro. Credo che in un sistema più equo lo spettacolo che miri a essere popolare, non qualunquista o superficiale ma popolare, dovrebbe avere maggiore facilità di circuitazione. E anche una critica vera, da parte sua, dovrebbe esserne altrettanto consapevole».

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La televisione sembra avere soppiantato qualsiasi altro mezzo di comunicazione e dialogo con il pubblico. Dove si colloca il teatro in questo panorama?
R. C.: «Una delle ragioni dell’imbarbarimento del pubblico nasce dall’idea che non sia sbagliato pensare che la televisione sia lo specchio del Paese. Con la conseguenza che, se questo mezzo è in grado di essere deformante, il Paese finirà per assomigliare all’immagine che si vuole darne con la tv. Questa è un’idea della coesistenza civile di tipo feudale. Dove un’aristocrazia, che tende a pensarsi in termini di nobiltà permanente, considera giusto e normale che un numero limitato di persone abbia il diritto di formare il comune sentire di una nazione. Il teatro, al contrario, è un anticorpo naturale alla creazione del pensiero unico».

Trattato di economia è un’analisi tragicomica dell’attuale situazione di crisi e, detta così, potrebbe sembrare un polpettone verboso. Al contrario, è una performance esilarante e intelligente. Questo dimostra che si può partire anche da temi di per sé anti-teatrali, ma reali, per fare teatro. Come avete costruito lo spettacolo?
R. C.: «Andrea (Cosentino, n.d.g.) aveva il desiderio di cimentarsi con il tema dell’economia. La mia premessa, invece, nasceva dalla domanda: “Se non ci fosse qualcuno che mi paga, salirei su un palco?”. Probabilmente sì. Ma quante altre persone farebbero il loro lavoro se non ricevessero una contropartita in denaro? In altre parole, cos’è questa cosa che chiamiamo denaro, per la quale facciamo così tante cose che altrimenti non faremmo? E, a seguire: “Se domani il denaro scomparisse, chi continuerebbe a lavorare?”. Da queste considerazioni iniziali, siamo passati ad analizzare cosa sia il denaro – a livello morale, economico, finanziario ed etico. A questo punto, Andrea e io abbiamo capito che il tema era quanto di meno teatrale potessimo pensare. E il rischio era mettere in scena Striscia la notizia. Ma né lui né io volevamo sederci di fronte al pubblico sciorinando battute, perché questa non è né la sua né la mia idea di fare teatro. Quindi, dopo avere studiato, letto, visto, raccolto una miriade di informazioni e avere finalmente a nostra disposizione molti argomenti, ci siamo resi conto che ormai la materia ci era chiara, così come quello che volevamo dire. Ma avremmo avuto una grande difficoltà ad articolare gli argomenti in una forma teatrale. Il risultato è nato dal tentativo di tenere insieme il tutto, evitando di tirarci fuori dal meccanismo. Ossia, evitando di prenderne le distanze, come in un’inchiesta giornalistica o in un’analisi da economisti. Ci siamo confrontati con il semplice fatto di essere su un palco, di fronte a un pubblico. Il che, oltre a essere un contratto economico stipulato con gli spettatori, ha molto a che fare con il prestigio dell’individuo. Lo stesso prestigio che ha connessioni, a sua volta, con l’economia a diversi livelli. Il fatto di essere su un palco, può essere economicamente poco rilevante ma molto dal punto di vista del prestigio personale. Ma cosa faccio io per essere sul palco, qual è il prezzo al quale sono disposto a concedermi, pur di ottenere il consenso del pubblico e continuare a fare il teatrante? A questo punto, abbiamo deciso di giocare a costruire lo spettacolo/prodotto perfetto, che ci garantirebbe a lungo il nostro privilegio».