I dialoghi del cuscino

La macchina attorale. Un percorso per nottambuli in cerca di perché. Quando less is more.

Se è difficile rispondere alla domanda su cosa sia il teatro, chiarire la figura dell’attore non è impresa meno titanica. Da quello biomeccanico di Mejerchol’d all’interprete epico brechtiano, definizioni e paradigmi si sono affastellati soprattutto negli scritti di teorici (si pensi ad Artaud), e di autori o registi (oltre ai già citati, basti menzionare Stanislavskij, anche pedagogo).
Ma l’attore prometeico che si libera dalle catene autorali e si erge a macchina celibe, creatrice (e non procreatrice) di universi di senso, almeno in Italia nasce con gli Sessanta e trova i suoi massimi esponenti in Gian Maria Volonté (nel cinema) e, ovviamente, Carmelo Bene (in teatro).
Oggi, in questa Italia in crisi più di idee, forse, che di reali possibilità e dove la necessità piuttosto che l’opulenza aguzza l’ingegno, molti sono gli attori che tentano di percorrere la strada della creazione indipendente, rischiando spesso il solipsismo, dato che non a tutti è concesso di essere realmente convincenti nei ruoli di autore, dramaturg, regista e interprete, evitando gli -auto (autoreferenzialità, autocitazionismo, autocompiacimento). Soprattutto se la macchina attorale si riduce al one-man-show che, troppo spesso, scade nei cliché e applica format scenico-rappresentativi nei quali si ingabbiano fiumi di parole.
Ma veniamo al punto (se qualche lettore paziente sarà ancora interessato e non si sia arreso al preambolo). La macchina attorale è un corpo, una voce, una forma mentis, un bagaglio artistico e culturale, un insieme di esperienze e una poetica. Oltre, ovviamente, a un’esigenza creativa. E qui sta il vulnus. Se all’attore si rimproverano le sue magnifiche ossessioni, significa criticarne la cifra stilistica. Eppure, nelle arti figurative, questo non accade o, dopo il primo taglio, nessuno avrebbe più apprezzato i Fontana.

Venendo a Roberto a Latini, macchina attorale per eccellenza, quali sono le sue ossessioni? L’en travesti, l’uso originale della voce e le sue distorsioni tecnologiche, la scelta di brani musicali dissonanti eppure coinvolgenti, il pastiche, la scomposizione testuale e l’ibridazione per restituire universi di senso altri, l’uso sagace del grottesco, la fisicità proterva brutale e pure perturbante, una scenotecnica insieme allusiva e onirica, la fascinazione dello spettatore – insieme fisica, metaforica e sensuale.
Ne I giganti della montagna (versione Inequilibrio Festival 2014) tutti questi strumenti che l’attore suona da virtuoso, come un solista ispirato, funzionano perfettamente perché al servizio di un fine creativo e, al termine, quando lo spettatore esce da teatro porta con sé il ricordo di un’opera carica di fascino e incompiuta e, proprio per questo, aperta alle interpretazioni oltreché intrinsecamente magica e sfuggente. I giganti pirandelliani sono restituiti alla loro lancinante bellezza di oggetto d’amore colto dal nostro primo sguardo. Le incrostazioni delle rappresentazioni teatrali passate, le letture vetuste, il pirandellismo degradato a nozionismo scolastico, sono spazzati via con un solo colpo da maestro. In parole povere, l’impronta di Latini, inconfondibile, restituisce un senso completo e originale, quasi ipnotico, a un testo che, usato e abusato, ci sembrava di conoscere fin troppo bene. Eppure, con la sua arte, con le sue ossessioni per il corpo e la voce, e in quella voce e quel corpo, I giganti assumono la perturbante bellezza dell’ignoto, la straniante fascinazione di un oggetto che, nello scarto di senso, assume un nuovo (e forse più autentico) significato. La materia (il testo) plasmata (ricreata con i mezzi propri del teatro) dall’artista, si fa forma (scenica) nuova.
Del resto, quando si parli di teatro e non di spettacolo (come specificava molto meglio di me Bene), questo risultato dovrebbe essere sempre atteso (anche se non sempre può essere raggiunto), in quanto frutto di un’esigenza artistica forte, di un bisogno motivante di esprimersi e confrontarsi con una certa materia, in un dato tempo – personale e collettivo.

A volte, però, le ossessioni si riducono a stilemi, svuotandosi di senso, infeltrendosi come maglioncini d’angora dopo un bucato a 60 gradi.
Veniamo, quindi, ad Amleto + Die Fortinbrasmachine che, ci si perdoni la metafora ironica, sembra un bucato scolorito. Naturalmente, si può chiamare a correità un sistema di finanziamento pubblico che premia la produzione bulimica invece di quella necessaria; ma la volontà creatrice, l’esigenza artistica che è matrice essenziale per la produzione di un oggetto artistico/culturale, qui sembra mancare. I quadri si rincorrono slegati, mentre l’opulenza dei simboli e dei segni, se è vero che apre a sempre nuove letture e interpretazioni, è altrettanto vero che rende quasi indecifrabile il senso ultimo di una performance virtuosistica, priva di emozione o capacità di entrare in empatia con lo spettatore.
Al paziente lettore chiedo ancora qualche minuto di attenzione. In fondo, questi sono I dialoghi del cuscino, e mi piace immaginare queste righe come concilianti al sonno (o, ironicamente, soporifere…).
Amleto + Die Fortinbrasmachine, riscrittura di una riscrittura (e, quindi, cima impervia di rielaborazioni) appare gemma priva di impurità; ma il teatro (come, la vita) ha bisogno di sporcizia, ruvidezza, una certa dose di grossolanità, per non scadere nel patinato traslucido che rischia la spettacolarizzazione da guscio vuoto.
Hellboy en travesti, con tacco 12; una M. Butterfly pre-rivoluzione culturale; il cult movie Blade Runner; l’acquario simulato in video; la lancinante sovrapposizione di donne/vittime par excellence, Ofelia e Marilyn (sicuramente l’immagine più pregnante e riuscita); la ripetizione fino allo svuotamento di senso del titolo dell’opera; la moltiplicazione simbolica degli oggetti scenici fino al parossismo, dalla bara/altalena (morte/infanzia) alla croce/spada (perdono/vendetta); l’autofustigazione e la riappropriazione di una mascolinità virile fino a quel momento negata. Ogni quadro, puro come un distillato, non ricompone un insieme che riesce a restituire nemmeno la pallida imago di Amleto.

E veniamo all’ultimo titolo analizzato. La versione radio edit de I giganti (il 29 luglio a Collinarea Festival 2016), priva di scenografie, costumi e oggetti di scena, non solo funziona ugualmente, ma la voce fisica e il corpo poetico di Latini restituiscono appieno la profondità del testo che, manipolato con intelligenza, e prosciugato da qualsivoglia divagazione, conserva intatto e restituisce appieno il proprio mistero e il comune bagaglio di dolore.
Complice un tramonto da cartolina che fa da sfondo naturale al cortile del Castello di Lari, con un semplice velo viola, un uso sagace del proprio corpo (a tratti esile figura/ombra che si staglia nera e bidimensionale contro la vallata), una gestualità ridotta all’osso e la voce – insieme sublime, distorta, impostata, potente o muliebre – Latini ricrea un’empatia tra spettatori e interprete che diventa compartecipazione dell’hic et nunc.

Gli spettacoli sono andati in scena:
Inequilibrio Festival 2014

giovedì 3 luglio, ore 22.00
Castello Pasquini di Castiglioncello – Tenso sotto
Roberto Latini (senza Federica Fracassi) presenta:
I giganti della montagna

VolterraTeatro 2016
giovedì 28 luglio, ore 18.00
Teatro Persio Flacco di Volterra
Fortebraccio Teatro/Roberto Latini presentano:
Amleto + Die Fortinbrasmachine

Collinarea Festival 2016
venerdì 29 luglio, ore 20.00
Castello di Lari – cortile
I giganti della montagna Radio Edit