Dalla Calabria, un uomo che parla con e delle donne. Saverio La Ruina: attore, regista e drammaturgo, co-fondatore con Dario De Luca della compagnia Scena Verticale, a Castrovillari. Vincitore di numerosi premi, racconta a Persinsala questo meraviglioso universo femminile del Sud del quale si fa portavoce.

Perché è un uomo a interpretare due monologhi femminili che trattano di argomenti così delicati?
Saverio La Ruina: «Chiaramente ci sono delle spiegazioni razionali: sono donne che rintraccio nell’esperienza di mia nonna e, in parte minore, di mia madre; donne per le quali ho sempre nutrito un’infinita tenerezza. Sono le architravi della società meridionale ma, nel contempo, le vittime di un sistema patriarcale – un sistema che loro stesse hanno condiviso. Non hanno mai avuto voce – forse non l’hanno mai chiesta – e mi piaceva l’idea di dar loro la possibilità di esprimersi e raccontarsi. Fin dall’inizio non volevo che l’uomo scomparisse dalla scena ma si trattava pur sempre di storie nelle quali l’uomo è il carnefice. Doveva quindi essere presente come responsabile dell’infelicità di queste donne e il percorso, di conseguenza, doveva
essere anomalo: il carnefice doveva dare voce alla vittima. Credo che nella società manchi da parte dell’uomo la condivisone del percorso di emancipazione femminile».

Qual è il ruolo di un uomo quando si parla di interruzione di gravidanza?
S. La R.: «Lo spaccato sull’interruzione di gravidanza nella vita di Vittoria, la protagonista di La Borto appunto, è un qualcosa che ho riscontrato in numerosi racconti: quell’”arrangiati” che emblematicamente condensa il comportamento maschile. C’è da dire che per una donna di quell’epoca il sesso era un martirio, non era fare l’amore ma un’espressione della sopraffazione maschile. Nel ’78, con la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, le cose sono cambiate. Oggi una donna è più libera nelle proprie scelte sessuali e non è costretta a vivere con il timore di continui parti. Certo, se decide di interrompere una gravidanza, spesso è sola in questa scelta ma, per quanto mi riguarda, spetta proprio a lei decidere. Il problema è che a volte l’uomo non è un compagno in grado di affrontare la situazione. Spesso sfugge alle sue responsabilità già a partire dall’atto sessuale, quando potrebbe banalmente indossare un preservativo».

I suoi spettacoli parlano dell’universo femminile del Sud. Ma al Nord rileva differenze?
S. La R.: «Decisamente no: basta vedere gli episodi di violenza che si manifestano un po’ dovunque in Italia. La donna cerca l’autodeterminazione e questo provoca la risposta violenta della società maschile, perché la donna deve pagare le conseguenze del suo tentativo di liberarsi dei ruoli imposti. Per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, vale lo stesso discorso perché la nostra è una società profondamente cattolica. Anche nell’avanzata Lombardia ci sono donne in pellegrinaggio da ambulatorio in ambulatorio perché si trovano di fronte a un muro di gomma, che impedisce loro l’esercizio di un diritto sancito per legge. Poi c’è naturalmente il problema delle donne immigrate, che non hanno le stesse possibilità delle italia
ne».

Altri progetti sullo stesso filone?
S. La R.: «Quando ho deciso di mettere in scena La borto ho temuto che avrebbe suscitato molte critiche, visto che era uno spettacolo così simile a Dissonorata. Però, a un certo punto, la spinta a scrivere è stata talmente forte che non ho potuto farne a meno. Per quanto mi riguarda la sfida era creare un personaggio nuovo, che si discostasse dalla protagonista di Dissonorata. Idearne un terzo forse sarebbe troppo. Scrivendo La Borto ho provato un grande pudore, che continuo ad avere proprio a causa del tema trattato – che appartiene alla nostra intimità più profonda. Una donna potrebbe obiettare che è invece importante che un uomo se ne occupi, perché anche il soggetto maschile ne è responsabile.»

Queste due storie di donne sono ispirate a episodi reali?
S. La R.: «Il mondo maschile che soffoca le donne dei miei spettacoli è uno spazio che conosco abbastanza bene, essendo stato per anni sotto i miei occhi. Ci sono molti elementi di verità e altri di finzione. Diciamo che nel complesso è veritiero ma con piccole “licenze”. Come autore teatrale devo creare un linguaggio, fughe fantastiche, però anche il frutto della fantasia parte sempre da suggestioni reali».

Questi spettacoli che riscontro hanno al Sud?
S. La R.: «Un impatto sempre molto forte, anche da parte maschile. Questo spettacolo può essere un buon pretesto per riflettere sui condizionamenti imposti a livello sociale e culturale. Tanti luoghi comuni andrebbero ripensati ma non sembra un buon momento per farlo. Negli anni 70, gli anni del dominio della DC – un partito profondamente cattolico – è stato fatto un lavoro di emancipazione straordinario. Oggi mi sembra che la società si sia assopita. I modelli che emergono sono pessimi e profondamente assimilati dai giovani. Alla fonte c’è sempre una gestione delle libertà e delle conquiste in termini maschili».

Pensi che questi spettacoli possano avere una qualche utilità per una donna nella stessa situazione di una tra le protagoniste?
S. La R.: «Onestamente non penso il teatro abbia questo potere. Cinema e tv influenzano maggiormente le persone. Direi che queste pièce hanno un valore di testimonianza per un uomo o una donna che la pensa diversamente. Forse possono essere di conforto per coloro che intraprendono la battaglia».

Perché usa il microfono anche in uno spazio piccolo come la sala del Parenti?
S. La R.: «Avevo pensato che, in effetti, in uno spazio così ridotto non sarebbe stato necessario, ma oramai – dato che lo utilizzo sempre – per lavorare sul bassissimo, anche in una sala microscopica, ne sento il bisogno: così riesco a parlare al personaggio di Vittoria come fossi in un confessionale. Un modo perché il pubblico colga tutti gli stati d’animo della protagonista».