Faust, una sinfonia in bianco

In una scenografia candida e asettica Federico Tiezzi mette in scena la prima parte del Faust di Goethe. L’ottimo Sandro Lombardi è Mefistofele.

Il Faust di Wolfgang Goethe è il testo fondante dell’Europa moderna, non solo perché affronta con ineguagliata forza espressiva il tema del male, ma soprattutto perché riflette sulla volontà di potenza dell’uomo occidentale, riconoscendone da un lato la necessità storica, dall’altro i gravi pericoli insiti in essa. E non è un caso che il mito, uno dei pochi che non abbiamo ereditato dal mondo greco, abbia attraversato tante culture, quasi rimbalzando dall’una all’altra: Christopher Marlowe, Arrigo Boito, Fernando Pessoa, Thomas Mann, Paul Valery.

Più che comprensibile che Federico Tiezzi si sia lasciato tentare (è il caso di dirlo) dall’idea di metterlo in scena, suggestionato anche dal ricordo emozionante del Faust Frammenti, la ricerca guidata e interpretata da Giorgio Strehler, che in questo spettacolo lascia più di una traccia.

Con la collaborazione di un compagno di tante rischiose avventure, quale Sandro Lombardi, di due bravi interpreti (Marco Foschi e Leda Kreider) e dei giovani attori dell’ultimo biennio del Teatro Laboratorio della Toscana, e con l’eccellente consulenza musicale di Francesca Della Monica, Federico Tiezzi legge il poema di Goethe attraverso la lente di Sigmund Freud (l’anno scorso, come si ricorda, ha diretto L’interpretazione dei sogni nella riscrittura di Massini), di Friedrich Nietzsche, di Thomas Mann e del melodramma italiano e con qualche suggestione cinematografica (Kubrick, Lynch). E sceglie di concentrarsi sul Faust parte prima, ridotto alla durata di circa due ore, ma lasciando intatta la linea narrativa del poema, qui tradotto in modo funzionale da Fabrizio Sinisi.

Taglia così di netto il Prologo in Teatro, sostituendolo con un’ironica introduzione che in qualche modo è un omaggio anche alle origini sperimentali del regista: nello spazio architettonico assolutamente bianco predisposto da Gregorio Zurla, i giovani attori del Teatro Laboratorio della Toscana si dispongono in cerchio e intonano dei canti a cappella: una scritta ci informa che si tenterà di far levitare l’attore posto al centro (Marco Foschi), ma che, se l’esperimento dovesse fallire, allora si rappresenterà il Faust di Goethe.

Ovviamente l’esperimento non riesce e lo spettacolo ha inizio, incanalandosi sui binari più tradizionali del teatro di parola. Non si tratta di uno sberleffo del tutto gratuito: l’aspirazione all’impossibile della volontà di potenza dell’uomo e il conseguente fallimento sono una interpretazione del poema e, contemporaneamente, il rovello del regista, che si accinge alla realizzazione di un’opera irrappresentabile, degna, come avrebbe detto Karl Kraus, “di un teatro di Marte”.

Il Prologo in cielo è sicuramente la scena più originale: i tre angeli che lodano Dio, Michele (Alessandro Burzotta), Gabriele (Nicasio Catanese) e Raffaele (Ivan Graziano) sono sospesi a testa in giù alla graticcia: con precisione e un’abilità tecnica stupefacente intonano le loro lodi a Dio, raffigurato in uno specchio infranto. Il Paradiso di Tiezzi è il regno della Legge, Dio non è il volume dantesco in cui si lega “ciò che per l’universo si squaderna”, ma al contrario il riflesso deformante di una realtà squadernata. Gli angeli sono così strumenti passivi di un ordine superiore che li ha incatenati e costretti a cantarne le lodi.

L’ingresso dalla platea di Mefistofele permette di respirare quasi un soffio di libertà, anche perché è l’ottimo Sandro Lombardi, che aggiunge alla sua galleria di personaggi straordinari un’altra creazione: il suo diavolo è un guitto trasandato con il viso irregolarmente coperto di biacca, forse un po’ vecchio viveur, senz’altro un cialtrone.

La storia di Faust a questo punto si configura come un esperimento da laboratorio: ed ecco che tutti i cambi sono allestiti da servi di scena, che sono infermieri di un ospedale psichiatrico o di un laboratorio asettico (immagini divenute casualmente familiari, in tempo di coronavirus), in cui la realtà è data da pochi elementi: sedie metalliche da sala d’aspetto, un tavolo da obitorio, dei bonsai, qualche albero con le radici in zolla.

Faust è interpretato da Marco Foschi, che nel primo monologo vive la tragedia della conoscenza del personaggio con un tormento cieco, chiuso in se stesso, molto sofferto, non sempre però comunicativo. Le prime sequenze lo colgono nel momento più drammatico della sua crisi: lo studioso si interroga sul senso della sua cultura, sul valore dell’educazione e non può che riconoscere il suo fallimento, tanto da meditare il suicidio. Lo salva il suono delle campane che suonano a festa.

La scena della domenica di Pasqua, molto ben coreografata da Thierry Thieû Niang, con i suoi popolani alla Magritte, è vivace e precisa, così come sono assolutamente produttivi i due grandi dialoghi in cui alla fine Faust firma con il sangue il suo patto con il demonio.
Come accadeva nella ricerca di Strehler, anche Foschi e Lombardi si scambiano di ruolo, ma solo per poche battute, sottolineando così che Faust e il diavolo sono due facce dello stesso uomo.

La sequenza della strega può sembrare strana, ma in realtà è assolutamente filologica. Il testo goethiano ci dice che la strega è assistita dai gatti mammoni (in tedesco Meerkatzen, cioè gatti di mare), che contrariamente a quel che dice la parola sono proprio degli scimmioni. Tiezzi ci mette del suo, trasformando anche la strega in scimmia e aumentando il numero degli assistenti.

Il ringiovanimento accende la libido del personaggio, come la prevedibile riproduzione de L’origine del mondo di Courbet rende esplicito: a questo punto si inserisce la storia di Margherita, interpretata dalla brava Leda Kreider, e inizia la tragedia d’amore, costruita da Goethe sul modello shakespeariano dell’Amleto.

Non fosse per qualche tempo morto nei cambi scena (tra l’altro molto semplici), la storia procede rapidamente, saltando a piè pari gli episodi dello Studente, della cantina di Auerbach e della lunga notte di Valpurga, e concentrandosi appunto sul personaggio di Gretchen.

Efficace la scena del Duomo (con Mefistofele che prende il ruolo dello Spirito Maligno), meno la grande sequenza del carcere. Citando ancora Strehler che affidava all’immensa Giulia Lazzarini le voci di Faust e Gretchen, suggerendo dunque che forse non si tratta di un vero dialogo, ma di una proiezione mentale della ragazza, che, dopo aver assistito alla morte della madre ed essere stata maledetta del fratello, è stata incarcerata, forse per avere soppresso un bambino avuto da Faust.

L’esito però, nella scelta di Tiezzi, è meno convincente. Vista l’impostazione sanitaria dello spettacolo prevale una e una sola interpretazione: si tratta di una follia, tra lady Macbeth e Lucia di Lammermoor. Qua e là si coglie qualche elemento incongruo e poco chiaro che la possa spiegare, mentre la maledizione rivolta a Faust (“Heinrich, mi fai orrore”), proprio perché cantata, perde di forza, se non di significato.

Lo spettacolo è andato in scena:
Piccolo Teatro Grassi

dal 18 febbraio all’1 marzo 2020
(repliche interrotte in seguito all’ordinanza sul Coronavirus)

Scene da Faust
di Johann Wolfgang Goethe
versione italiana Fabrizio Sinisi
regia e drammaturgia Federico Tiezzi
scene e costumi Gregorio Zurla
luci Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
coreografo Thierry Thieû Niang
canto Francesca Della Monica
con Sandro Lombardi, Marco Foschi e Leda Kreider
e con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Luca Tanganelli
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi
in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato
e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese