Psicologia e mito

In anteprima al Teatro dell’Olivo di Camaiore va in scena Scimmie, nuova prova drammaturgica e registica di Caterina Simonelli, questa volta alla prese con l’Iliade o “quella guerra detta di Troia”.

Scimmie è una rielaborazione dell’Iliade, e allo stesso tempo uno studio sulle possibilità espressive di due linguaggi diversi, prosa e danza.
Dopo essersi confrontata con il capolavoro Shakespeariano King Lear in RealLear, e con la storia di Edipo in Family Affair, Simonelli si cimenta questa volta con la storia della guerra di Troia. Le vicende degli eroi omerici sono guardate attraverso la lente di una lettura psicologica, e in scena i personaggi abitano/animano una precisa psicologia.
Chi incontriamo, quindi? Agamennone, prima, nel suo interesse ad attaccare Troia (desiderio che lo porta a rendere pubblico il piccolo problema del fratello), poi, in quella sua dimostrazione di forza contro Achille, così deleteria e foriera di lutti. C’è poi Odisseo, che cerca di ottenere i suoi scopi (tornare a viaggiare, via, lontano da Troia) utilizzando le persone come pedine, considerandole semplice carne da macello (danni collaterali, si direbbe oggi). C’è Achille che impone la sua protezione a Patroclo, tenendolo rinchiuso al sicuro, come una mamma troppo protettiva verso il suo bimbo troppo amato. C’è un Patroclo al limite dell’esasperazione, che si ribella alla protezione dell’amante, ma è troppo giovane e privo di esperienza per trovare salvezza, ovvero per intuire le forme di manipolazione di Odisseo, per capire almeno vagamente le scelte di Achille, per liberarsi dal desiderio di gloria. Paradossalmente, in questo quadro, è proprio Elena ad essere quella senza peccato, vittima dell’amore, che sia Divinità o impulso naturale. Elena è l’unica a essere priva di una psicologia, più simile a un animale in preda a una forza maggiore, ossia la passione.

In questa nuova-antica storia, i personaggi sono ancorati alla realizzazione dei loro piani, e si mostrano senza scrupoli nel realizzarli. Agamennone e Odisseo in modo completamente negativo; ma anche Achille e Patroclo, sebbene mossi da buone ragioni: senso di protezione, il primo; desiderio di onore e di realizzazione, il secondo. Tutti sembrano, comunque, isolati dagli altri nella propria intenzione, non c’è vero confronto o contrattazione, ma solo imposizione del proprio volere con ogni mezzo: la forza bruta, la manipolazione, la protezione (con un uso protettivo della forza), la ribellione.
Dalla chiave di lettura psicologica consegue forse anche la visione del potere che vediamo in scena. Non è in questione un potere inteso in senso politico, non è preso in considerazione, neppure vagamente, il concetto di bene pubblico. Le ricadute sul resto del mondo nascono da scelte nate nell’ambito delle relazioni personali e familiari. Il potere è una semplice estrinsecazione della volontà personale, esercitata sugli altri con modi e stili diversi, ma sempre come un’imposizione di forza, silenziosa a volte, altre violenta. La volontà è, a sua volta, quel misto di temperamento, carattere, desideri e pulsioni, bramosia, imposizioni sociali e bisogno di prestigio. La forza esercitata è subita dagli altri, che a loro volta vi oppongono resistenza o ribellione, ma senza una chiara assunzione di responsabilità verso le proprie scelte e azioni. C’è reazione ma non responsabilità. È una visione, questa, non tanto di un potere immorale, quanto immaturo, inconsapevole. Non machiavellico, bensì infantile, una lotta fra bambini per il gioco nuovo, per la supremazia del castello di sabbia, per la soddisfazione dei propri capricci. Se negli animali il potere è istinto, in questi umani è inconsapevolezza delle proprie prigioni psicologiche, sociali e culturali. E, paradossalmente, è proprio Elena la più innocente, poiché vittima di Eros, divinità o impulso/istinto: per lei la vicenda non ha un risvolto psicologico. Ed è, anzi, proprio lei a rivendicare un’assunzione di responsabilità da parte degli altri, così abili a incolpare delle proprie scelte le azioni altrui.

Pregio del lavoro è, quindi, quello di riuscire a puntare il dito sul non-senso di un potere che sconvolge la vita dei popoli, e che è esercitato (ieri come oggi) senza considerazione per le sue conseguenze.
Nell’Agamennone di Eschilo il coro rinfaccia il non-senso della guerra di Troia, di tante morti e sofferenze, causate da una donna. Nel taglio interpretativo scelto da Simonelli ogni personaggio è accusato, messo a nudo, mentre si lascia intendere che nella vicenda siano implicate soprattuto motivazioni personali. Motivazioni di cui Elena, nel suo monologo, invita a prendere consapevolezza assumendosi le proprie responsabilità una volta per tutte.

È affascinante confrontarsi con la narrazione, e in cui la vicenda di Patroclo – in particolare – suscita molte riflessioni. Viste da fuori, con occhi contemporanei e più sensibili alle trappole delle convenzioni sociali e al disagio della civiltà, le motivazioni del giovane, che si lascia manipolare da Odisseo – il quale fa leva sui suoi desideri (quello di agire, di dimostrarsi uomo, di essere fiero) – sembrerebbero discutibili, mettendoci in condizione di interrogarci sul senso dei valori che chiama in causa. Ma è davvero così futile il concetto di onore? È futile preoccuparsi della considerazione degli altri? Cos’è la dignità? Da dove viene e cosa la determina? Non è importante difenderla? E in fondo, quanto sono diversi Patroclo e Agamennone? La risposta a queste domande ci sorprende: il problema non è affatto così scontato. Il testo antico dispiega tutta la sua forza archetipica, mostrando la complessità di simili questioni (ed è un altro pregio dello spettacolo restituire questa complessità).

Alcune cose, però, in questo Scimmie, non convincono.
Prima di tutto l’andamento del racconto, che procede in modo relativamente lineare fino alla morte di Patroclo, per poi accelerare all’improvviso, con scatti, scarti di tempo importanti, monologhi a fare da epilogo (nel caso di Odisseo, risultando anche piuttosto frettoloso). Paradossalmente, si era rimasti stupiti dal finale parziale causato da una sosta obbligata (per risolvere un problema tecnico), che ci aveva fatto assaporare una conclusione inaspettata ma efficace, secondo una collaudata ironia tragica.

Il tema della differenza fra uomo e animale compare solo all’inizio e alla fine (nella danza iniziale con passaggio da scimmia a persona – citazione cinematografica kubrickiana, un po’ sfilacciata rispetto al resto – e nella parte finale dell’ultimo monologo di Elena), restando tutto sommato marginale nell’economia della storia. L’esplicitare il senso dello spettacolo, con le parole di Elena, ha inoltre un effetto negativo: da un lato, risulta un po’ didascalico; dall’altro, è come se si volesse vincolare e rendere univoco il significato della vicenda.

Qualche perplessità la suscita anche la gestione dei simboli. C’è connessione biunivoca, semplice, piatta fra significante e significato. Non ci sono legami aperti, fluttuanti, ambivalenti, bensì diretti; il che rende i simboli simili a figurine, rappresentanti di precisi significati, da appiccicare al loro posto. Eccezione è l’affascinante entrata della donna in nero. Chi è? Elena? Una divinità? Atena? La sua ascesa con la grande gonna nera da cui si eleva, la avvicina a uno spirito del male, una Madonna della Misericordia delle tenebre (e del peccato): il nero sotto di lei fluttua e vortica facendo precipitare tutti dentro di sé.
Dispiace, poi, che nella costruzione del personaggio di Odisseo si perda l’occasione di mostrarne a pieno tutta l’ambiguità e la complessità, all’interno delle stesse scene. Mentre nelle prime, lo vediamo quasi vittima degli eventi e più simile all’Ulisse dantesco, che a quello omerico (amante del viaggio e della scoperta, curioso come un filosofo, o meglio, come un bimbo filosofo); dalla terza scena in poi si trasforma in personaggio disposto a tutto pur di realizzare i suoi propositi.

Anche riguardo la prestazione attorale dei quattro interpreti abbiamo qualche dubbio. Sebbene si tratti ancora di un lavoro in elaborazione (abbiamo assistito a un’anteprima), la presenza scenica degli attori non pare all’altezza, soprattutto per quanto riguarda le parti danzate (un momento corale con tutti gli interpreti in scena, che danzano all’unisono, va saputa gestire).

Dal punto di vista stilistico la messinscena è un misto di suggestione antica e contemporaneo, caratteristica degli ultimi spettacoli della Simonelli (soprattutto Family Affair), nelle parole, nei costumi e persino nella scena (un tulle che ricorda una tenda di un accampamento, da cui – in trasparenza -emergono le ombre e, soprattutto, l’emblematica scritta Amo). La mescolanza stilistica, per quanto piaccia, come forma ibrida senza complessi, si percepisce, qui, come cifra stilistica, come caratteristica di linguaggio, che rimane a livello delle forme ma non tocca il cuore. Non si compie, in parole povere, la trasposizione tra mito tragico e realtà drammatica che è la caratteristica e il fiore all’occhiello di RealLear.

Efficaci, al contrario, le musiche: un tappeto sonoro quasi costante.

Per quanto riguarda la struttura, le parti danzate e quelle recitate si alternano in modo vagamente scolastico, come segmenti chiusi, e c’è poca osmosi fra le diverse sezioni (a differenza dei lavori precedenti). Le scene di danza sono capitoli, quadri che narrano o descrivono un momento della vicenda. Anche in questo caso c’è un po’ di univocità nel significato, mancando di ambiguità o apertura: la danza è semplice rappresentazione di una situazione precisa – navigazione, guerra, morte.

Nel complesso, Scimmie, risulta quasi più un esercizio (niente di male in questo, sia chiaro: gli esercizi sono necessari nell’evoluzione di un percorso), dimostrando un che di acerbo, non tanto nella messinscena quanto nell’ideazione stessa. Manca forse di ulteriore maturazione e chiarezza? Certamente, nel fare queste riflessioni, ha un suo peso l’avere ancora in mente il precedente Family Affair, ma soprattutto RealLear: meno preciso forse, o forse più ingenuo, ma autentico, sincero, diretto.

Aggiungeremmo, come redazione, che Simonelli – come altri attori/autori, ma anche scrittori – trova la propria vena creativa più autentica quando racconta di sé, di ciò che conosce nel profondo, e lo mette in scena solamente con la forza della sua voce, del suo corpo, delle sue capacità interpretative. Il teatro nella sua essenza: un attore che racconta una storia a uno spettatore che la compartecipa.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro dell’Olivo
Camaiore, Lucca
mercoledì 20 giugno, ore 21.00

Scimmie
liberamente ispirato al mito dell’Iliade
elaborazione drammaturgica Caterina Simonelli
con Alessandro Balestrieri, Laura Belli, Matteo Prosperi e Lorenzo Torracchi
coreografia Silvia Bennett
regia e luci Caterina Simonelli
organizzazione Francesca Giannini
promozione Alessandra Marmeggi
grafica Patrick Heerdink
produzione IF Prana
e con il contributo di Regione Toscana