Una proposta meticcia nei linguaggi, un calendario fitto di eventi tra narrazioni, performance site-specific, dialoghi e installazioni: il festival di Santarcangelo è davvero ripartito?

Da Nord a Sud, l’interesse di stampa e maestranze che Santarcangelo riesce a catalizzare nei propri confronti è sempre altissimo. Figlio dell’attesa che, se non il meglio, almeno l’originale artistico accada e si manifesti, questo piccolo paesino della Romagna è ormai da circa mezzo secolo uno dei contesti performativi storicamente più innovativi del Belpaese.

Le aspettative nei confronti della cinquantesima edizione era poi massima: dichiarata l’«ostinazione a trovare dei rimedi, che non sono “a tutti i costi”», riconosciuta la consapevolezza che «adesso è più importante dire NO che accettare compromessi», affermate la volontà di reagire alla «capacità che il sistema ha di non farci registrare i mutamenti» e l’intenzione di «pretendere il Fantastico assoluto», la contingenza storica di una corrispondenza biunivoca tra la necessaria riorganizzazione logistica della manifestazione determinata dal rispetto delle normative postcovid e le rivoluzionarie posizioni dei suoi direttori artistici, i Motus, sembrava infatti potesse alludere alle ragioni seminali di un radicale ripensamento di un percorso che, più che un appuntamento festivaliero, è ormai una vera e propria abitudine culturale che gode di significative risorse materiali, artistiche ed economiche. Per quello che abbiamo potuto ammirare concretamente nei due giorni della nostra presenza e leggendo un programma come minimo disorganico nell’oscillare dalla tradizione della parola drammatica agli eccessi del performativo, l’esito è quantomeno controverso.

Il nostro venerdì 17 luglio si è aperto con un estratto del work in progress di Tabù dei Quotidianacom. Solo venti minuti, pochi ma abbastanza per riconoscerne l’inconfondibile cifra stilistica, il metateatro e la gestualità mimica, le battute sarcastiche e la specifica indagine sui fenomeni del contemporaneo. In questo caso, la visione del porno viene assunta quale dispositivo di disciplina individuale e sociale, nonché di conformismo. Se l’intenzione finale è quella di chiedersi se il tabù sia uno «strumento politico di controllo e oppressione o salvavita dell’equilibrio sociale» e di confrontarsi «con il proibito, con i divieti che disubbidienza o trasgressione stentano a demolire» spiace constatare come tale ricerca sia ancora distante anni luce da una qualsiasi forma di ironica profondità.

All’Orto degli Ulivi, al Convento dei frati cappuccini, Claudia Castellucci ha portato Il trattamento delle onde. Divertissement ritmico senza troppe pretese, si tratta di un gioco di movimenti al suono delle campane presentato da un piccolo gruppo di emozionati bambini al termine di un seminario formativo.

Decisamente più audace è stato il progetto di El Conde de Torrefiel, Se respira en el jardín como en un bosque, performance in cui lo spettatore è coinvolto singolarmente e in prima persona e a cui viene chiesto di assumere il doppio ruolo prima di attore e poi di osservatore. Le istruzioni date in cuffie da una voce registrata, pur in un italiano a volte stentato, sono semplici e in parte interpretabili soggettivamente, tuttavia Se respira en el jardín como en un bosque perplime a livello strutturale rispetto all’obiettivo dichiarato di proporre un’esperienza da cui «emerge una riflessione sulla comprensione della realtà, sulla capacità di costruirla, come accade in teatro, e sul piacere di osservare in silenzio».

I meccanismi di ascolto passivo ed esecuzione meccanica, in particolare il commento retorico che accompagna l’ascolto nei momenti in cui ci si siede a guardare l’azione altrui e che pretende di spiegare in maniera pedante e moralistica ciò che si è provato e si è esperito, configurano – da un lato – lo sgretolarsi in uno sguardo voyeuristico della potenziale complicità tra gli individui che pure si sono alternati in una comune esecuzione/ visione e – dall’altro – la dispersione di ogni potenziale di curiosità ed empatia dell’allestimento in una noiosa spersonalizzazione.

Sul palco del Parco Baden Powell, si è chiusa la nostra prima serata con il «progetto di teatro documentario e partecipativo che s’interroga sullo stato dell’arte della famiglia contemporanea» di ZimmerFrei. Family Affair si compone visivamente attraverso  il montaggio di scene di vita più o meno quotidiana e drammaturgicamente attraverso il commento dal vivo da parte di quelle stesse persone riprese nei brevi estratti video: «piccoli nuclei e grandi famiglie, coppie libere da figli, genitori single, famiglie e fratellanze d’elezione, famiglie arcobaleno, gruppi di convivenza e cespugli familiari di ogni tipo», insomma storie colorate, solidarietà comunitarie, spontaneismo degli affetti e lieto fine.

Pensando che comprendere il contemporaneo significhi semplicemente sovrapporre la propria volontà con la realtà e banalmente omologare la propria dimensione privata con quella collettiva, Anna de Manincor e Massimo Carozzi guardano senza alcuna lucidità o complessità al fenomeno familiare. Family Affair è una proposta totalmente ideologica e tristemente celebrativa del politicamente corretto in materia di immaginario familiare. Pensare di interpretare i cambiamenti che agitano il nostro paese e del mondo negli ultimi 30 anni in chiave unicamente progressista o ritenere di sostituire un modello con un altro e confondere il nostro giudizio come se fosse l’unica – la più giusta – opinione possibile significa ignorare le asperità di una situazione in cui coesistono esperienze che non potrebbero pure non piacerci e che non sceglieremmo, ma che hanno perfetta legittimità e con le quali servirebbe confrontarsi senza porsi da alcun pulpito a fare le prediche.

Sabato 18, siamo ancora nel Parco Baden Powell per Sorry, But I Feel Slightly Disidentified, un assolo di Cherish Menzo coreografato da Benjamin Kahn.

La danzatrice, posta in lontananza rispetto a un pubblico disposto a cerchio, si avvicina con circospezione. Arrivata al centro di questo pseudo palco, spogliatasi degli abiti tradizionali, messi quelli occidentali e mostrato il proprio statuario fisico, tutto senza soluzione di continuità, Menzo inizia a disegnare linee disordinate, a ballare con qualità diversi stili di danza e ad assumere posture – alcune riconoscibili, altre decisamente meno – relative alla decostruzione «dei luoghi comuni legati all’identità sessuale, all’essere stranieri, all’erotismo, alle etichette prodotte dalla cultura mainstream». Dunque, il bersaglio è la messa in discussione del patriarcato, la critica di ogni distinzione sessuale manichea, la promozione di una ideologia esplicitamente gender e fluida. Il corpo e il movimento liberati, la privazione della parola e l’esposizione del ritmo sono il materiale rispettivamente primordiale e basico di questa operazione. Privando la danza di ogni narrazione e affidandone la capacità espressiva a membra anarchiche, Kahn e Menzo propongono la solita e stucchevole operazione che non parla di nulla che non sia riconoscibile – in termini intellettuali o emotivi – se non nella lettura della presentazione dello spettacolo e che, soprattutto, non si capisce come possa autenticamente negare alcunché di dominante e conformista essendo l’espressione di una cultura che spesso si crogiola nella propria minorità, dunque in una posizione altrettanto disciplinante ed escludente.

Apparentemente meno ambiziosa, ma decisamente più efficace e altrettanto nobile, è stata la proposta di Fanny & Alexander, che ha ricondotto parte del classico di Primo Levi, Se questo è un uomo, a un allestimento basato sul rapporto tra recitazione narrativa e “interferenze” performativo-scenografiche. I sommersi e i salvati – dal progetto Se questo è Levi – è ospitato dalla Sala consiliare, la costruzione drammaturgica di Chiara Lagani è sontuosa nel riproporre le parole dell’epocale testo di Primo Levi sull’esperienza del campo di concentramento e la modalità dello spettacolo diventa pretesto per conoscere la storia e per esplorare i meccanismi di disumanità a cui ognuno oggi potrebbe continuare a essere esposto.

Pur avendo familiarità con le tragedie del passato, il presente non è scevro dai rischi di involuzioni democratiche e umanitarie: il pubblico, seduto sugli scranni, ha di fronte a sé un foglio da cui può trarre le questione che deciderà di porre al protagonista (dunque senza possibilità di improvvisazione); Andrea Argentieri risponde attraverso una restituzione meticolosa delle posizioni storiche e antropologiche di Levi «guidato da una domanda: quanto questa testimonianza è ancora capace di parlarci tramite la sensibilità di un attore che si lascia attraversare dai materiali originali a noi rimasti?»

La scena spoglia, ma altamente simbolica, la pulizia della voce e la limpidezza delle posizioni espresse rendono I sommersi e i salvati in grado di dialogare con il pubblico su questioni alte, storiche e attuali evitando distorsioni didascaliche o astruse curvature sperimentali e situandosi sul limes virtuoso di una posizione didattico-pedagogica maieutica e non coercitiva.

Salutiamo Santarcangelo con Tiresias di Bluemotion. Tratto da Hold your own di Kate Tempest, è il racconto attualizzato del Tiresia delle Metamorfosi di Ovidio, il celebre personaggio reso cieco da Era e indovino da Zeus in seguito alla loro disputa sul fatto che fosse la donna o l’uomo a godere più dell’atto di amare.

Il protagonista è un giovane che attraversa le polarità della vita. Tempest, ibridando elementi tragici (l’incontro con i serpenti, il cambio di sesso, l’intervento divino) e contemporanei (la crisi adolescenziale, la marginalità sociale, la solitudine e la rinascita personale), la immagina poeticamente divisa in quattro capitoli, inizia dalla giovanissima età, si evolve nella doppia maturità di uomo e donna e giunge, infine, all’epilogo da profeta cieco.

Il questo percorso di formazione, il parallelismo con la questione cruciale delle identità e dell’alterità è palese, ma, rispetto alle inutili acrobazie ermetiche e allo sterile pseudo-sperimentalismo di Kahn, a prendere forma è finalmente una restituzione significativamente teatrale. Complice la scelta di un allestimento suggestivamente incastonato tra gli alberi del Parco, Giorgina Pi mette al servizio dello splendido testo originario una regia intelligente nel dare densità scenografica, nell’evitare il didascalismo scenico e nel non incespicare in complicazioni che avrebbero potuto vanificarne la portata epocale dei contenuti e la potenza poetica della forma.

Gabriele Portoghese mostra margini di maggiore confidenza con la gestione della scena, dai vari microfoni alla chitarra e alla console, e la sua prova necessita di affinare l’impostazione vocale delle diverse personalità, ma il tuo Tiresia è colmo di fragilità e speranze, la sua maschera è quella di un individuo immerso nell’opposizione al conformismo sociale e che scopre demoni anche nelle proprie resistenze personali. Il suo sentiero spezzato forse è segnato, forse non lo è, ma la sua esistenza non potrà che conoscere gioia e sofferenza, paura e felicità. La sua carne pulsa, il suo sangue scorre, il corpo e lo spirito non vogliono essere scissi in un viaggio verso l’epilogo, verso un destino scritto a più mani e, allo stesso tempo, da nessuno.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Santarcangelo dei Teatri
location varie, Santarcangelo di Romagna
17 e 18 luglio

Secsi shop
via Sancisi 3a
Tabù
di e con Roberto Scappin, Paola Vannoni
coproduzione Teatro della Caduta, quotidiana.com
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna
in collaborazione con Armunia Residenze Artistiche

Teatro Il Lavatoio
via Ruggeri, 16
Se respira en el jardín como en un bosque
idea, creazione e drammaturgia El Conde de Torrefiel
testo Pablo Gisbert
voce Tanya Beyeler
composizione sonora Rebecca Praga
concezione spazio El Conde de Torrefiel
produzione Santarcangelo Festival, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, CIELO DRIVE
con il supporto del Programma per l’Internazionalizzazione della Cultura Spagnola (PICE) di Acciòn Cultural Espanola (AC/E)

Nellospazio
via Costa – Parco Baden Powell
Family Affair
concept e regia ZimmerFrei
regia video Anna de Manincor
suono Massimo Carozzi
assistente alla regia Muna Mussie
comunicazione Gaia Raffiotta
con la partecipazione di famiglie e gruppi di abitanti di Santarcangelo e dintorni
co-produzione Santarcangelo Festival e ZimmerFrei
con il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission, Network Open Latitudes con il supporto del Programma Cultura dell’Unione Europea
inserito all’interno del progetto europeo BE PART cofinanziato dal programma Europa creativa dell’Unione europea
con Raffaella Albertazzi, Raghad Al Khawli, Khadija Belahsen, Achille Brigliadori, Elettra Brigliadori, Dario Costigliola, Ginevra Costigliola, Alessia della Pasqua, Onide Fabbri, Giulia Ghinelli, Alberto Gnola, Abd Elrahim Hsyan, Iftikar Hsyan, Melania Marcatelli, Isabella Pieroni, Margherita Peroni, Stefano Pieroni, Elena Tontini, Enea Tontini, Ramona Tosi
e la partecipazione di Ali Al Khawli, Qutayba Al Khawli, Simone Brigliadori, Ulisse Brigliadori, Hiba Hsyan, Luna Hsyan, Mohamad Hsyan, Samar Hsyan
si ringrazia Arianna Valentini

Orto dei Frati
Convento Frati Cappuccini – via Cappuccini
Il Trattamento delle Onde
coreografia Claudia Castellucci
assistente Alessandro Bedosti
musica Campane del Monastero di St.Benoit di En-Calcat registrate nel 1958 con un fastigio orchestrale di Stefano Bartolini
organizzazione Camilla Rizzi
direzione alla produzione Benedetta Briglia
produzione Societas, Cesena

Sala Consiliare
piazza Ganganelli, 1
I sommersi e i salvati
dal progetto Se questo è Levi
regia Luigi De Angelis
drammaturgia Chiara Lagani
con Andrea Argentieri
organizzazione e promozione Ilenia Carrone
produzione E/Fanny & Alexander

Nellospazio
via Costa – Parco Baden Powell
Sorry, But I Feel Slightly Disidentified
ideazione, regia e coreografia di Benjamin Kahn
performance Cherish Menzo
luci, costumi, musica e testo Benjamin Kahn
con il sostegno dell’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi e Wallonie – Bruxelles International

Tiresias
progetto di Bluemotion
da Hold your own-Resta te stessa di Kate Tempest
traduzione di Riccardo Duranti
regia Giorgina Pi
con Gabriele Portoghese
dimensione sonora Collettivo Angelo Mai
bagliori Maria Vittoria Tessitore
echi Vasilis Dramountanis
costumi Sandra Cardini
luci Andrea Gallo
organizzazione Alessia Esposito
comunicazione Benedetta Boggio
produzione 369gradi-Angelo Mai-Bluemotion
ringraziamo il Comune di Ventotene, Cecilia Raparelli e la Terrazza Paradiso per la collaborazione e il sostegno