Ritratti d’Autore

Silvia Frasson, dopo aver di nuovo incantato il pubblico del Mese Mediceo con il suo A saperlo prima… nascevo altrove, risponde alle domande di Persinsala. Un’intervista alla scoperta di Silvia, del suo mondo immaginifico e dei suoi personaggi incantati, persi nel limbo che unisce realtà e fantasia. In nome del popolo italiano, in scena il 19 luglio al Fringe Festival di Spoleto, l’ha vista in abiti inediti, per regalarci un nuovo aspetto della poliedrica Silvia.

Silvia, perché si definisce “narratrice” e non “attrice”? Quali sono le differenze fra raccontare e recitare? Cosa significa raccontare una storia?
Silvia Frasson
: «La definizione esatta, tipo: nome, secondo nome e soprannome è proprio “attrice e narratrice immaginifica”. Silvia Frasson è entrambe le cose, e in effetti le due cose sono diverse eppure legate. Sono narratrice quando faccio i miei spettacoli, li immagino, li scrivo, li racconto, li creo. Io sono il punto che contiene tutto, io do il via alla storia e ne tengo le fila, io , nel dipanarsi della storia, divento altri personaggi, entro ed esco da personalità, caratteri, emozioni. Io narratrice creo un mondo, dove l’io attrice può ficcarsi dentro e recitare. Perché essere attrice, per me, è immedesimazione, è vivere in un’atmosfera non reale ma immaginaria. Il narratore è qui e ora, l’attore è messo dentro una situazione, dentro una storia, dentro un’emozione e reagisce e vive di conseguenza. Nella prosa ci sono le luci, la scenografia, altri attori, testi di altri. Nella narrazione ci sei solo tu, le tue mani, i tuoi occhi e come vedono il mondo, la tua fantasia e i cieli in cui si libera,la tua pancia e quello che ti attorciglia le budella. Raccontare una storia è condurre in un mondo altro dove si aprono scenari fantastici, si porta il pubblico (e me per prima!)  accanto ai personaggi e con loro si attraversano vicende, con loro si soffre, si ride, si guarda il mondo intorno».

A quale personaggio è maggiormente legata e perché?
S. F.
: «Sono legata a ogni personaggio che ho raccontato, ognuno di loro entra a far parte della mia vita nel momento in cui lo studio e lo creo. E ognuno di loro è una parte di me, ognuno lascia il segno, ognuno prende da me. Mi affeziono ad ognuno di loro e mi mancano molto quando gli spettacoli finiscono. Ognuno di loro è legato a un momento preciso della mia vita, perché si racconta quello che si vive, quello che si attraversa, quello che si agita intono a noi in quel momento. E allora Giovanna d’Arco è la prima storia che ho raccontato, la racconto dal 2001, mi è rimasta accanto in tutti questi anni, lei è l’inizio di tutto, e gli inizi sono importanti, sono indelebili. Giovanna mi ha aperto una strada, ha fatto luce. E Giovanna è la storia di una fede e di un dubbio atroce, di una lotta passionale e totale, di chi si è dato senza domandare perché, di un’ingenuità bella, forte e senza paura. Giovanna è la mia anima credo, che è venuta dopo è il mio incontro/scontro col reale, col mondo, con gli eventi della vita».

La storia più bella che le abbiano mai raccontato?
S. F.
: «La storia più bella che mi abbiano raccontato è in un mio spettacolo, appunto, in Giovanna d’Arco. è la storia di una bambina che è fatta di sale, la storia di lei che si incontra col mare. La storia è bellissima e straziante, la raccontò in un’omelia un prete quando ero bambina ed è rimasta impressa nella mia mente come un tatuaggio. Me la sono portata dietro tutti questi anni senza accorgermene e poi ho capito perché».

Adesso lei è molto a suo agio nei panni di “solista”. Tornerebbe a recitare in spettacoli a carattere corale?
S. F.
: «Sì, assolutamente! Lo faccio appena posso! Lavorare in gruppo è bellissimo, è prezioso, è uno scambio irrinunciabile. I monologhi sono anche un modo perfetto per scommettere su di te, li scrivi, li fai, li vendi. Serve solo uno spazio, senza null’altro. Lavorare in gruppo è più difficile dal punto di vista delle possibilità che esistono in questo momento e in questo Paese di fare questo mestiere. Ma è fondamentale per andare avanti nel percorso attoriale, non vorrei mai fare solo la narratrice, sarebbe un limite. Invece, è una grande risorsa da aggiungere al resto».

Oltre a trascinare emotivamente gli spettatori, nello spettacolo Quando non avevamo niente, li conduce fisicamente in un percorso alla scoperta dei luoghi della storia. Quale posto vorrebbe far conoscere al suo pubblico e che – a oggi – non è a suo avviso valorizzato?
S. F.
: «Beh… di storie che nessuno sa ce ne sono tante, di posti poco conosciuti altrettanti..metterei insieme le cose e direi: vorrei che le persone, i comuni, le associazioni, mi chiamassero per un progetto così: vorremmo valorizzare questo posto, ce la racconti una storia? In questo modo il teatro sarebbe anche un mezzo per scoprire la cultura, le abitudini, il passato, di luoghi e paesi. E poi però esprimo un desiderio: vorrei raccontare una storia sul mare. Tante storie che hanno a che fare col mare, le racconterei in riva al mare, al tramonto».

Una storia che non ha mai raccontato e a chi la racconterebbe.
S. F.
: «Racconterei la storia di me, a mia madre, come se fosse una storia qualunque raccontata a chiunque».

L’incontro con Alessandro Riccio di Tedavì ’98 ha portato ottimi frutti, ma il Mese Mediceo è giunto alla sua ultima edizione. Pensa di far rivivere ancora i personaggi della dinastia?
S. F.
: «Penso che la collaborazione con Alessandro Riccio e Tedavì98 andrà avanti, nonostante la fine del mese mediceo. Bisogna rinnovarsi, trovare altri progetti, altre strade, altre storie. La possibilità di continuare a raccontare i personaggi medicei è sempre qui, accanto a me, chi lo sa…appena finita l’ultima replica di A saperlo prima nascevo altrove è arrivata una richiesta di replica per settembre. Le cose a volte non hanno nessuna intenzione di finire».

Un’immagine dalla scena: un attimo che si porta dentro.
S. F.
: «C’è un momento in cui sento che il pubblico è con me, sempre. In ogni spettacolo, in ogni replica, è diverso, ma c’è sempre. C’è un silenzio fermo, dove senti che tutti sono col fiato sospeso, stanno aspettando che tu vada avanti, sono con te, tutti. E’ bellissimo. E’ potente. E’ magico. Alcune sere indugio proprio in quel silenzio, in quel momento di pausa dove tutto è sospeso, come per assicurarmi che tutti ci sono, che sono tutti pronti, allora posso continuare, andare avanti, insieme, in questo viaggio. E allora riparto, e quando riparto sento che siamo in tanti».

Lei è attiva nell’uso dei social network. Quanto crede che questo approccio diretto offerto dalla tecnologia potrà cambiare il rapporto fra pubblico e attori? Crede sia utile per portare il pubblico dalla platea fin dentro la scena?
S. F.
: «Bella domanda… I social network servono, è indubbio. In questo momento non c’è nulla di così potente a livello di diffusione. Mi fa ridere, ma appena faccio uno spettacolo la prima cosa che la gente fa è chiedermi l’amicizia su Facebook. C’è questo bisogno immediato di entrare in contatto con te anche nel privato. Non è una cosa che mi piace da impazzire, anzi. Ma riconosco che tutti i social network sono utili e necessari, se fai un certo tipo di lavoro. Poi, come tutte le cose, vanno usati con moderazione. Tramite Facebook ho ricevuto tanti bei messaggi e impressioni e riscontri dal pubblico dei miei spettacoli,questo è bello, senza dubbio. Ed è capitato anche che mi abbiano contattato per proposte di lavoro».

Silvia Frasson scriverebbe una storia per un altro attore?
S. F.
: «In realtà lo faccio. Ho un gruppo di narratrici nel mio paese di origine Chiusi, Le Coche (galline, in dialetto chiusino), per loro scrivo storie e faccio la regia e a raccontare sono loro, che sono bravissime. Il gruppo è nato dai laboratori che ho fatto in occasione di un evento, che poi ha riscontrato talmente tanto successo che ci chiamano a raccontare storie anche in giro. Scrivo comunque come se scrivessi per me, le ragazze (sono sei donne) raccontano come racconterei io, è buffo. Una specie di passaggio di metodo e stile. È un bel modo per lasciare tracce, per condividere una grande passione e la scelta di uno stile».