Ritratti d’Autore

Di tutti gli istanti, ovvero il titolo dell’ultimo lavoro che Silvia Pasello e il suo collettivo hanno presentato a Inequilibrio Festival 2018, lo scorso 5 luglio. Un debutto, per un’opera che il gruppo ci tiene a descrivere come ancora in elaborazione, in cammino, non finita, eppure affascinante.

Il punto di partenza è il testo di Marguerite Duras, Savannah Bay, di cui però, come affermato dal gruppo, resta poco se non alcuni riferimenti e il personaggio principale, Marina, interpretato da Silvia Pasello, su cui si innesta in trasparenza la storia teatrale della stessa attrice. Dalla drammaturgia realizzata si dipana un racconto, con un’atmosfera da thriller, che nasce da un passato misterioso lentamente riportato alla luce dalle domande che la giovane intervistatrice (interpretata da Caterina Simonelli) pone alla protagonista, attrice famosa.
Dal punto di vista del linguaggio teatrale, alle due interpreti in scena si aggiunge una videocamera, che Simonelli utilizza per inquadrare Pasello, con primi piani impietosi, tagli insoliti, angolature particolari, fino al suo spegnimento, che obbliga quasi fisicamente lo spettatore a un cambio di direzione dello sguardo e a concentrarsi solo sulla scena. All’ingresso in sala, una lettera misteriosa, destinata a ogni singolo spettatore: “Per te”, vi si legge sopra.
Il progetto, nato due anni fa da un’esigenza particolare di Silvia Pasello, ossia dal tentativo di custodire, recuperare e mantenere viva la fiammella – così si legge in un’intervista per Inequilibrio – di un certo modo di fare teatro, incentrato sulla relazione. Un modo di procedere ormai inusuale e che, da un punto di vista poetico, si muove all’interno di quel cammino di esplorazione in terre sconosciute – senza sapere cosa si stia esattamente cercando – che ha caratterizzato il miglior teatro italiano degli anni 60 e 70. Incuriositi dal progetto e dalla modalità della sua realizzazione, a fine spettacolo salutiamo le interpreti e chiediamo spiegazioni. Ci viene dato appuntamento con parte del gruppo per un caffè il giorno dopo, un caffè che diventa una vere e propria avventura, fatta di temporali, corse sotto la pioggia e, soprattutto, discussioni affascinanti sui bisogni di questo tipo di teatro, sulla relazione fra scena e spettatore e fra scena e spettatore ufficiale, ovvero il critico.

Che cosa serve per potersi prendere cura di questo modo di fare teatro, incentrato sulla relazione?
Silvia Pasello: «Credo ci sia bisogno di un habitat. Un habitat che non c’è più, che va ripensato, rifondato. Anche le residenze, ovvero l’unica situazione che minimamente assomiglia e che può accogliere un altro modo di praticare il lavoro teatrale, non rispondono del tutto a queste esigenze. Nel momento di presentare il lavoro, ti rendi conto che c’è comunque una fretta, che ti rimanda alla modalità dello spettacolo. E tutto questo finisce per negare e smentire tutto ciò che hai preparato nei mesi precedenti. Ti ritrovi dentro una contraddizione. Abbiamo bisogno di tempo, di un tempo diverso, un tempo che ormai non conosciamo più nella nostra vita ordinaria. Penso che noi, nel nostro piccolissimo, cerchiamo di resistere a questa fretta. Ci prendiamo un tempo diverso ma non abbiamo la continuità. Non esiste più un luogo, o un vero interlocutore, per questa esigenza artistica».

Cosa intende per interlocutore?
S.P.: «Spesso è difficile incontrarsi anche con chi crede nel progetto e lo sostiene. Ci si ritrova al bar, si fanno due chiacchiere, ma finisce lì. Qualcuno restituisce un’opinione sul lavoro. Tuttavia, l’ottica rimane sempre quella dello spettacolo, ovvero del prodotto finito che deve avere certe caratteristiche. E allora il mio problema diventa: “come posso comunicare che anche se il lavoro può essere ed è effettivamente presentato al pubblico (perché ha le caratteristiche per farlo), rimane aperto, non è concluso, e soprattutto non ha nella sua natura l’obiettivo di essere concluso?” Non è un prodotto preconfezionato, bensì un percorso aperto».

E tutto sommato sconosciuto, verrebbe da aggiungere.
S.P.
: «Oggi esiste uno scollamento fra chi produce, organizza, progetta il teatro e chi lo fa. È come se le domande degli artisti – chiamiamoli così – fossero molto diverse da quelle dei produttori e si rivolgessero a obiettivi completamente diversi. Pare che non ci siano punti di incontro, perché il mercato è diventato feroce e segue logiche altrettanto feroci. Manca la capacità di ascolto: anche in questo senso non c’è un interlocutore. Per fare un esempio, ieri sera abbiamo avuto un feedback da una persona piuttosto autorevole riguardo la presenza del video, sulla sua necessità. E qui torniamo al discorso di prima, sul fatto che il feedback rischia di inserirsi sempre all’interno della logica dello spettacolo, per cui qualcosa funziona oppure no. Ma funziona secondo quali parametri mi domando. Il prodotto preconfezionato è qualcosa di diverso rispetto alla ricerca. Quando tu cerchi qualcosa, può capitare che non la trovi, passi attraverso delle situazioni di crisi, delle crisi però molto feconde se sono accolte e rispettate in quanto tali. Cosa ti succede, al contrario, quando ti restituiscono un feedback simile? Metti te stesso e la tua scelta in discussione. Si vive una situazione strana: tu sei un artista, eppure devi sempre giustificarti, cercando di farti capire, come se quello che chiedi, quello di cui parli, fosse un tuo capriccio. Io stessa devo impegnarmi per rendermi conto che ho ragione e per affermare le mie ragioni. Spesso resto bloccata all’interno di una dinamica in cui chiedo cittadinanza, in cui devo giustificarmi. Ma io ho cittadinanza e non devo giustificare la mia esistenza. Ieri sera siamo rimaste ore a parlare sulla questione del video. Per noi, però, il video è una scelta. Una nostra scelta. Forse non è realizzata nella maniera migliore, ci sarebbe da lavorarci su, ma non voglio e non posso mettere in dubbio una scelta, una strada che ho deciso di percorrere. Il video, per noi, è una sfida».

Alla fine ci si confronta sempre con il risultato: forse è questo il problema.
S.P.: «E il risultato quale dovrebbe essere? Chissà chi lo decide. Eppure deve essere una certa cosa, e la ricerca di questo risultato finisce per impedire il lavoro, per interferire con i tempi e coi modi di produzione. E così succede che tu non puoi più fare ricerca. Mi domando anche che tipo di sguardo sia quello che si posa sul risultato. Quello del pubblico, ma soprattutto quello degli addetti ai lavori, si posa secondo certi paradigmi, o criteri, per cui alla fine il lavoro funziona o non funziona. E qui mi ripeto: funziona secondo cosa? Ben vengano gli appunti. Però o si crea uno spazio affinché i feedback siano fecondi, oppure si rimane al palo con quella critica che ti dice cosa mettere o togliere – magari per vendere meglio».

Il momento dell’incontro col pubblico, anche per un lavoro non finito, è comunque importante? Un modo per domandarsi: come ci incontriamo di fronte a quest’opera?
S.P.: «Esatto: è questo. Anche perché appartiene al teatro questa relazione d’incontro, fra spettatore e attore. Il teatro è relazione, viva, fra due esseri viventi. Tu crei un’opera attraverso dei processi che sono in parte e per forza anche inconsci, e una volta che li hai espressi, li interroghi. Ma tu non puoi interrogare l’opera da solo: se non c’è il pubblico questa domanda non si palesa. Anche quando hai la presenza di un occhio esterno, di un regista, tu non vedi più l’opera. È lo spettatore che ti permette di continuare a interrogare il tuo lavoro. Francamente, però, sento parlare raramente di questo ruolo, di questa funzione dell’altro polo dello sguardo – ossia dello spettatore – come di qualcuno che sia veramente parte del processo, e non solamente presenza pronta a fare commenti e critiche. Bisogna che avvenga qualcosa, in quel momento, fra lo spettatore e la scena, un qualcosa che riguarda la domanda dello spettatore stesso. Perché in genere chi va in scena, ossia l’artista, non propone delle soluzioni, bensì delle domande».

In quanto spettatore le chiedo: in che modo posso entrare in questo ruolo, o dinamica, quando incontro uno spettacolo?
S.P.: «In realtà è difficile anche per noi che andiamo in scena abbracciare in questo modo il ruolo dello spettatore. Io stessa, a volte, quando mi trovo dall’altra parte e mi rendo conto che il mio sguardo non è del tutto pulito. Credo che si tratti di riscoprire – che era un po’ il tema da cui siamo partite noi come collettivo – cos’è una relazione, cosa significa essere in relazione. Quando io mi pongo di fronte a uno spettacolo, che cosa succede fra me e quello che ho di fronte e quanto riesco a essere libero? In questo credo ci sia qualcosa che accomuna attore e spettatore: nell’entrare in scena l’attore deve azzerare – entrare a zero – lasciando che accada ciò che deve, in una particolare relazione fra attività e passività. C’è questo stato particolare, che chiamo passività, e credo che anche lo spettatore debba viverlo: essere lì, in quel momento, libero e non libero, portandosi dietro il suo bagaglio (culturale, intellettuale, personale) e, allo stesso tempo, restandone consapevole e riuscendo a garantire uno sguardo nuovo. È una questione di risonanza: se la cosa risuona (nello spettatore -ndg), anche senza sapere perché, allora significa che qualcosa è accaduto. Lo spettatore dovrebbe forse essere più consapevole di questo aspetto della risonanza, del fatto che è un risuonatore. Ogni spettatore a seconda di quella che è la sua storia, riporta quello che vive, il viaggio che si fa.
L’artista secondo me mette in moto un processo, che tuttavia, una volta avviato non è più sotto il suo controllo. L’artista può solo farlo partire, e in questo può e deve essere rigoroso, questo sì.

Ci vuole rigore?
S.P.: «Sì. Nel processo creativo quello che puoi controllare, quello in cui puoi essere maestro è il rigore. Devi essere rigoroso nello stabilire le condizioni di partenza, l’opera deve essere realizzata in modo rigoroso. Ma poi il processo, una volta messo in moto, lo puoi solo accogliere e osservare. Ci sono dei momenti in cui puoi forse re-intervenire, ma lo sento come un movimento di onde: quando è partito, non lo puoi più controllare».

Mi sembra che si tratti di abbandonarsi a uno stato di sospensione e vulnerabilità. In quanto critico, giornalista, operatore, come posso prendermi cura della relazione?
S.P.
: «Credo che i nostri percorsi siano in relazione ma anche indipendenti. Ognuno ha il suo sguardo. Forse la cosa importante è che sia uno sguardo amorevole, uno sguardo che ama quello che fa, quello che vede, quello con cui si mette in relazione. La critica può anche essere feroce, ma se lo sguardo è amorevole, se non è al servizio di nessuno, bensì di qualcosa che non riguarda né me né te e ci supera entrambi, allora si può scrivere e dire veramente tutto e questo tutto può essere accolto. Serve questo tipo di consapevolezza, ma se manca così come la tua domanda, la tua propria, indipendente, allora tutto si vizia. Come artista non mi riguarda quello che dici. Tu fai il tuo e io il mio. Se io faccio il mio e tu fai il tuo, ci incontreremo. Lo faremo in un luogo terzo rispetto allo spazio dell’uno e dell’altro. Ma se tu vuoi intrometterti nel mio o io nel tuo – perché questa cosa è reciproca – allora lì non ci sarà incontro, ma si innescheranno le solite dinamiche. L’effettivo incontro è un privilegio che a volte si riesce ad attuare e altre no, perché questo luogo terzo è sempre potenziale».