Una fantomatica persecuzione

Nell’incantevole cornice del Teatro di Documenti va in scena un’interessante versione di Spettri, il dramma scritto da Ibsen nel 1881, durante il suo soggiorno a Roma e Sorrento. Il regista Giuseppe Venetucci e un’affiatata squadra di attori immergono il pubblico nell’universo poetico del drammaturgo norvegese. La luce fioca dei paesaggi scandinavi avvolge le coscienze dei personaggi, implicati in torbide storie di corruzione, di eredità, di incesto e di follia. Una lucida indagine psicologica in uno spazio scenico innovativo.

Spettri, ovvero Gjengangere nell’originale norvegese. La parola, che dà il titolo al celebre dramma ibseniano, ha un duplice significato che la traduzione italiana rischia di smarrire. I Gjengangere sono i fantasmi, i morti che ritornano e si mostrano ai vivi, ma anche le eredità spirituali degli antenati, i vecchi modi di pensare, le superstizioni di cui è difficile sbarazzarsi. Helene Alving, durante un cruciale colloquio col pastore Manders, non poteva chiarirlo meglio: «… Quando ho sentito Regine e Osvald là dentro, è stato come vedere degli spettri davanti a me. Ma io credo, quasi, che noi tutti siamo spettri. Non è solo ciò che abbiamo ereditato da padre e madre, a ritornare in noi. È ogni specie di vecchie morti opinioni e ogni genere di vecchie morte credenze e cose simili. Esse non vivono in noi; ma intanto sussistono e non riusciamo a sbarazzarcene.».

Non è possibile qui riassumere, se non per sommi capi, le intricate vicende che orbitano attorno al ciambellano Alving, il convitato di pietra della pièce che – benché morto da un pezzo – continua a incombere sulle vite dei nostri personaggi, contribuendo a renderle sempre più insostenibili e inconsistenti.

Della sua spettrale influenza nessuno riesce a liberarsi. Non vi riesce Helene, la moglie che ne ha sempre conosciuto la dissolutezza, soprattutto quando lo sorprende ad avere un’avventura con la fantesca, da cui nascerà una figlia illegittima. Non il pastore Manders che, da dogmatico custode delle convenzioni sociali e religiose, aveva dissuaso Helene dal lasciare il marito, salvo poi scoprire di avere difeso un depravato. Non Osvald, il figlio di Helene e del ciambellano Alving concepito in seno al matrimonio, ma presto allontanato dalla madre, per farlo vivere in un ambiente protetto e incontaminato. Non Regine, figlia naturale del ciambellano e della governante, che si vedrà allevare da un padre non suo, senza saperlo, dovendo subirne i soprusi, per poi essere chiamata a lavorare come cameriera da Helene, nella casa che in qualche modo le spettava. Non Jakob Engstrand, il falegname claudicante e ubriacone, che sposerà la donna cacciata da Helene e darà il suo cognome alla figlia, attirato dalla cospicua dote che la ragazza madre aveva ottenuto in cambio di un immediato dileguamento.

La spettrologia ibseniana ha una struttura centrifuga: si squaderna a partire da un’assenza fondamentale, rappresentata dal ciambellano Alving, a tutti gli effetti personaggio attivo del dramma, da cui irradiano le lacune e i vuoti degli altri cinque personaggi. Giuseppe Venetucci ha reso visibile questa struttura, realizzando uno spazio scenico che decostruisce la tradizionale frontalità del «teatro all’italiana». Il Teatro di Documenti, del resto, lo permette: dopo essere passati per un grazioso foyer, gli spettatori prendono posto sui due lati di una sala che non prevede la consueta separazione tra pubblico e palcoscenico. Pur rispettando la descrizione degli ambienti lasciataci da Ibsen, noto per la minuziosità con cui disegnava gli interni borghesi della rappresentazione, il regista la rovescia, disponendo il pubblico lungo due pareti. Il punto di vista non può essere quello della «finestra albertiana» che raccoglie in una prospettiva unica il susseguirsi degli eventi, ma un rapido movimento oculare che si sposta tra gli spazi consecutivi della rappresentazione (stanze interne, salotto che dà sul giardino, anticamera con uscita all’esterno e sala da pranzo), intercettando le reazioni del pubblico collocato di fronte e accanto a sé.

Le interpretazioni offerte dagli attori sono tutte apprezzabili: la cementata coppia attoriale formata da Nunzia Greco (Helene Alving) e Piergiorgio Fasolo (Pastore Manders) catalizza l’attenzione del pubblico, che si lascia trascinare nelle tortuose giustificazioni e confutazioni delle loro condotte presenti e passate, senza arrivare ad una verità definitiva. Mauro Santopietro (Osvald) riesce a restituire con precisione – anche tramite un ponderato uso della voce e della mimica (tic) – l’indicibile angoscia che pervade il suo animo, quando racconta alla madre del misterioso «rammollimento cerebrale» che lo ha colpito e che lo farà regredire allo stadio infantile.

Alessandro Pala Griesche (Jakob Engstrand) e Giovanna Mangiù (Regine Engstrand, la cameriera della signora Halving) risultano molto convincenti nel raccontare la loro impossibile relazione di padre e figlia: ottuso e perfido negli affetti, ma assai perspicace negli affari, il primo, di cui va sottolineata la destrezza nel riprodurre la zoppia, metafora di un intero modo di essere; abile nel riconsegnare al pubblico il tragico, ma coraggioso ritratto della sua condizione di figliastra e di sorellastra, la seconda. Il tabù dell’incesto, infatti, è l’altro, sinistro spettro che aleggia nel dramma ibseniano, almeno per due volte: sia quando Helene, dopo avere sorpreso Osvald e Regine a flirtare, li porrà di fronte alla cruda verità del loro essere fratellastri; sia quando Osvald prospetta alla madre gli esiti fortemente invalidanti della sua malattia (il medico parigino lo aveva definito «vermoulu», tarlato o affetto da una tara), generando in lei primordiali impulsi incestuosi di possesso e di cura.

Con la precisione di un sismografo, Ibsen registra i contrasti interiori e le tensioni irrisolte dei protagonisti, rivelandone la densità psicologica e l’irresistibile attrazione per la depravazione e la devianza. Una riflessione non sulla «malattia mortale», quella che conduce naturalmente alla morte, ma sulle tare, le colpe e i vizi che i figli ereditano dai padri, senza averlo chiesto. Come gli spettri, che sono l’«apparizione dell’inapparente», anch’essi non cessano mai di tornare. Pur essendo estranei, ci sono familiari e ci chiedono di scendere a compromessi con loro.

Almeno fino a quando torneremo a vedere: «Il sole. Il sole».

Lo spettacolo continua
Teatro di Documenti
Via Nicola Zabaglia, 42 – Roma
fino al 24 novembre
giovedì e venerdì ore 20.45, sabato ore 19.00, domenica ore 18.00

Spettri
di Henrik Ibsen
traduzione e adattamento Giuseppe Venetucci
regia Giuseppe Venetucci
con Piergiorgio Fasolo, Nunzia Greco, Mauro Santopietro, Giovanna Mangiù, Alessandro Pala Griesche
costumi Chiara Fabbri
aiuto regia Paolo Orlandelli