Fino al 28 febbraio, al Palazzo della Ragione, sono esposti oltre 240 scatti del celebre fotografo statunitense.


I fotografi spesso sono illustri sconosciuti: l’occhio dietro al mirino che sceglie soggetto e inquadratura, esposizione e tempi, è identificabile solo attraverso le immagini che ruba in una frazione di secondo al tempo che scorre: la morte del miliziano di Robert Capa, il ritratto di Fidel firmato da Alberto Korda, la ragazza dagli occhi verdi – Sharbat Gula – di Steve McCurry. Ma la mostra che si sta tenendo a Milano è più di una collezione di scatti autorali, è un viaggio nello spazio, nelle storie e nella vita dell’altro: vecchi, donne e, soprattutto, bambini che condividono con noi il tempo presente ma dai quali sembriamo separati da un universo di esperienze.

La mostra segue un percorso a tappe, ognuna delle quali affronta un tema specifico: l’altro, il silenzio, il viaggio, la guerra, l’infanzia libera o tradita, la gioia e la bellezza. Un viaggio che parte proprio dai ritratti in posa di persone che McCurry ha conosciuto nei suoi lunghi vagabondaggi, con le quali ha costruito rapporti di stima e amicizia e che ci raccontano – attraverso lo sguardo intenso di una ragazza con il volto coperto dallo tchador, il filo di rossetto sulle labbra di una bambina con la fronte velata, la consapevolezza della ragione negli occhi della premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, la stanchezza tra le rughe di un minatore – storie di vita e di mondi lontani, di un’umanità che troppo spesso temiamo senza nemmeno conoscere.

È lo stesso McCurry a rivendicare il viaggio come motivazione principale del suo lavoro e le fotografie che immortalano – nel senso proprio di rendere immortali – i monaci di Myanmar in meditazione o le donne colte da una tempesta di sabbia che si raccolgono, una accanto all’altra, come i pinguini quando si difendono dal freddo; e, ancora, la madre con in braccio un bambino in una strada di Mumbai – fotografati dall’interno di un’auto mentre lei, oltre il finestrino appannato, stende la mano grondante di pioggia per sfiorare il vetro: per sempre chiusa fuori dal nostro universo di esperienze – ebbene, tutte queste immagini hanno la capacità di restituirci quell’attimo di intensa partecipazione emotiva, di contatto empatico tra l’uomo dietro il mirino e l’umanità di fronte all’obiettivo.

E ancora, la guerra che non ha bisogno di parole per raccontare l’orrore ma che, troppo spesso, a causa del bombardamento mediatico, assomiglia più a un videogioco che a un avvenimento reale che strazia corpi e carne di uomini e animali.

Ecco allora gli uccelli ricoperti di petrolio, durante la guerra in Kuwait, che ci fissano come per accusarci di quell’olocausto della natura del quale siamo tutti – direttamente o indirettamente – responsabili; mentre le scie luminose lasciate dai veicoli sul terreno ci ricordano che sotto quel cielo nero, cespugli e dune affumicati, prima della guerra erano velati di sabbia dorata che scintillava al sole, un sole che sembra impossibile nella lunga notte della ragione.

E, ancora, l’infanzia tradita vista attraverso gli occhi di bambini investiti della consapevolezza degli adulti da un semplice oggetto: maneggevole, metallico, funzionale, preciso, universalmente noto – un kalashnikov.

E infine lei: la bellezza. Anche se racchiudere il suo messaggio nei tre ritratti di altrettante ragazze afghane è riduttivo perché in ogni foto di McCurry, in ogni storia silenziosa raccontata da uno scatto, si può respirare il senso della bellezza: un paesaggio tibetano a primavera, le colline terrazzate ricoperte di risaie nelle cui acque si specchiano le nubi, donne nepalesi che ridono di gioia o un gruppo di bambini che nel Libano devastato dalla guerra giocano, arrampicandosi su un cannone della contraerea.

E per McCurry, come per Dostoevskij, la bellezza può salvare il mondo. Ma se lo sguardo che ha reso famoso il fotografo è quello di Sharbat Gula, quello che colpisce come mai prima d’ora – dopo anni di guerra per esportare la democrazia mentre le donne afghane, totalmente coperte dal velo (come racconta un’altra foto), ancora oggi possono solo mendicare per sopravvivere – è della ragazza di Herat che, quasi vent’anni fa, teneva stretti i libri al petto: simbolo e strumento di educazione, riscatto, libertà.

Un viaggio intorno al mondo, alle culture, racchiuso in una sola stanza, nel Palazzo della Ragione, una sede che traspira anch’essa storia e nella quale l’illuminazione accurata e la nudità delle pareti affrescate fanno da palcoscenico perfetto per questa mostra, che è soprattutto un’esperienza emotiva, un libro per la mente muto di parole.

La mostra continua:
Steve McCurry. Sud-Est.
prorogata fino al 28 febbraio
Palazzo della Ragione
Piazza dei Mercanti 1, Milano
info: www.stevemccurrymilano.it