Tra limiti e potenzialità

Tratto da Mongoloide, testo autobiografico di Matilde Piran, l’ultimo spettacolo di inQuanto teatro, Storto, è andato in scena al Teatro di Rifredi.

Adattato dalla stessa Matilde Piran e da Andrea Falcone, lo spettacolo è il racconto di «due studenti del liceo, ragazzi normali, eppure in difficoltà, che scappano insieme ancora prima di conoscersi» (note di regia). Lui si chiama Davide, ama disegnare storie e trascorre le proprie giornate in compagnia dei propri mostri, isolandosi dal gruppo di pari dal quale si sente incompreso e con il quale è  incapace di relazionarsi e comunicare il proprio fantastico mondo interiore. Lei è Elisa, ragazza appena trasferitasi in città, ha un fratello più piccolo con sindrome di Down che catalizza tutte le attenzioni della famiglia e nei confronti del quale e della quale ha instaurato un controverso rapporto, rispettivamente, di protezione e astio e di riscatto e fiducia.

Entrambi, di fatto, non riescono ad avere la qualità delle relazioni umane che pure sentono di meritare. Incompresi al e dal mondo, mostrano un pizzico di autocommiserazione accanto alla strenua volontà di non arrendersi, sono allora doppi nelle emozioni anagrafiche e unici nelle ragioni del cuore. In sintesi, sono storti perché divergenti rispetto a una ipotetica linea dritta, quella della normalità, che subiscono in maniera eterodiretta e inconsapevole, prima del sostanziale happy ending dopo un avventuroso viaggio a bordo di un pulmino scolastico (rubato) e varie peripezie tra bagni pubblici, cielo in tempesta e la scoperta di quanto in realtà sia cool e non sfigata la loro temuta anziana insegnante.

Se è proprio la dimensione di questa naturale immaturità – di cui Davide ed Elisa sono vittime non del tutto, ma quasi completamente – a strutturare il grado del loro disagiato stare al mondo, è allora la capacità di rappresentare l’ambiguità della loro giovane età, di lasciare intuire il dissidio di chi anela romanticamente a una vita estetica e, di conseguenza, sente lacerarsi l’anima tra omologanti convenzioni sociali e incombenti responsabilità individuali, a costituire la principale virtù di un progetto cresciuto rispetto a quanto messo in scena nel corso della finale del Premio Scenario Infanzia a Cattolica e che inQuanto teatro continua virtuosamente a coltivare attraverso il confronto (lo dimostrano anche le numerose matinée e gli incontri con il pubblico, alcuni svolti, altri già in calendario).

Muovendosi tra manualità attorale, colori sgargianti, artigianalità scenografica e sperimentazione multidisciplinare, l’allestimento coniuga interazione, parola, azione e graphic novel e compone un’ecologia scenica dichiaratamente ludica, tra spettacolo e gioco. Elisa Vitiello e Davide Arena restituiscono con generosità e buona tenuta i propri personaggi, mentre la regia lineare di Giacomo Bogani, pur evitando con merito astruse complicazioni, paga l’incertezza di fondo con cui Storto colloca il proprio pubblico di riferimento all’interno della fascia tra i 13 e i 18.

Dichiaratamente costruito con finalità pedagogiche e sottile metateatralità, declinandosi didatticamente in una forte componente visiva (grazie all’utilizzo di illustrazioni con cui, con didascalica lievità, Mattia BAU Vegni accompagna la vicenda narrata), Storto intende insegnare qualcosa nella convinzione che la complessità visiva possa facilitare l’apprendimento meglio di quanto semplicemente letto, ascoltato o visto in maniera univoca, ma non sembra ancora in grado di far sfuggire la «ricerca di un vocabolario emotivo capace di andare oltre le formule di cortesia (“problemino”, “diversità”)» da una restituzione pesantemente verbosa e poco credibile nell’essere «diretto, a volte addirittura violento» perché, da un lato, lo edulcora in semplicistici «termini come “storto”, “scemo”, mongoloide”» e, dall’altro, lo piega sull’ingenua e dialettica ammissione di un nuovo linguaggio moralisticamente migliore solo in quanto «più doloroso e articolato, inclusivo e mai scontato» rispetto quello della pura rabbia o frustrazione utilizzato nella prima parte dello spettacolo.

Elisa e Davide esplorano e si rendono compartecipi della costruzione di un progetto di vita tra storti, di un percorso di formazione volto a migliorare il loro rapporto con il mondo attraverso maggiore consapevolezza e assunzione di responsabilità, nonché a restituire al proprio giovane pubblico la complessità del quadro della vita, l’invito a osservarla da una prospettiva diversa, a fare sorgere naturale il desiderio di non riconoscere come aliena e minacciosa l’esperienza di chi è, a vario titolo, storto. Tuttavia, l’abbattimento degli stereotipi che li dipingono individui marginali (in quanto storti), sabbia di un ingranaggio altrimenti perfetto e felice, fatica a essere credibile fino in fondo in una storia che, senza coordinate spazio-temporali e storico-sociali, pretende di essere universale, ma così facendo chiude la propria significatività nell’esperienza individuale della propria autrice.

La stessa costruzione dei character risulta efficace solo se intesa quali astratti tipi ideali, a cui, infatti, risulta mancare lo spessore della concretezza, il realismo nelle sfumature, la capacità di sfuggire a una monolitica unidimensionalità e unidirezionalità, dunque all’incapacità di rispondere a semplici domande: Storto, a chi sta parlando? Di chi sta parlando? Domande alle quali, anche l’utilizzo di canzoni in inglese, pur idealmente proprie del mondo tardo-teenager, ma non immediatamente comprensibili dai 13 e i 18 di casa nostra (forse con alcune eccezioni, da No Roots di Alice Merton a The Night We Met, celebre colonna sonora della serie 13 reasons why), dubitiamo possa essere funzionale. A meno che, il target di riferimento non sia quello, estremamente ristretto, di ragazze e ragazzi con alto livello di istruzione e famiglie benestanti, il che, tuttavia, ne inficerebbe a priori il senso epocale.

Moralismi diffusi anche nel finale non agevolano l’empatia o la percezione di un allestimento che – pur valido nell’esecuzione e lodevole nell’intenzione – nel confronto con la propria ambizione (lasciar sovrapporre un’esperienza privata a quella collettiva e condivisa di un’intera generazione) mostra ancora tanto i limiti, quanto, ci auguriamo, le potenzialità.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro di Rifredi

via Vittorio Emanuele II, 303 Firenze

Storto
di inQuanto teatro
regia Giacomo Bogani
con Elisa Vitiello e Davide Arena
testo Matilde Piran e Andrea Falcone
illustrazioni Mattia Vegni
disegno luci e tecnica Monica Bosso
graphic novel Mattia BAU Vegni
età consigliata 13-18 anni
vincitore Premio Scenario Infanzia 2018