Il topolino partorirà una montagna?

Dopo la prima dello spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio, di Romeo Castellucci, nella platea del Franco Parenti si sono susseguiti interventi di alto profilo: la distruzione del volto, topos fondamentale dell’iconografia occidentale; l’interrogativo sul silenzio di Dio ad Auschwitz; il peccato di Giobbe; la differenza fra il concetto di “figlio di Dio e “figlio dell’uomo”; ma anche evocazioni di esperienze personali, dolorosamente consonanti con quanto si era visto sulla scena.

Ma a nessuno, laico, religioso, credente, agnostico che fosse, riusciva di individuare quell’offesa ai valori cristiani, oggetto da giorni di confuse polemiche, interpellanze, allarmate prese di posizione. Tuttavia, proprio a causa di queste, il tratto di via Pier Lombardo ove il teatro è ubicato era stato bloccato dalla polizia e dai carabinieri che, in tenuta antisommossa, consentivano l’accesso solo a chi esibisse il biglietto d’ingresso. Mentre in piazza Libia, poco distante, un prete lefebvriano celebrava una messa di riparazione e un gruppo di devote (per l’occasione, sostengono i maligni, cammellate dal Veneto,) snocciolavano rosari.

Una situazione quasi surreale che, sommata alla canea orchestrata da minoranze integraliste, da gruppi politici proclamatisi – non si sa a quale titolo – paladini dei valori cristiani, e alle minacce scopertamente antisemite rivolte ad Andrée Ruth Shammah, direttore artistico del Franco Parenti, dava il segno inquietante di un’eclisse di valori civili fondamentali e – qui sì – di una profonda offesa alla dignità, non solo di una benemerita istituzione teatrale, ma anche alle tradizioni illuministiche di Milano.

Tutto ciò rende difficile esprimere sullo spettacolo un parere critico sereno, cui tuttavia, non mi voglio sottrarre.
Confesso che non mi trovo sempre in sintonia con le scelte della compagnia “Raffaello Sanzio”. Mi sono spesso domandato come il gruppo che ha creato Buchettino (una delle cose teatrali più belle destinate all’infanzia, una sinfonia di suoni e rumori, riproposta di recente da Radio3), sia lo stesso che ha esposto sul palcoscenico di un suo spettacolo, nel ’98, una ragazza anoressica, morta alla vigilia di una replica. Sono provocazioni che lascerei a Oliviero Toscani.

Romeo Castellucci afferma che lo spettacolo è una riflessione sul quarto comandamento: “Onora il padre e la madre”. Ma a me è venuta in mente un’altra, diversamente suggestiva, commovente immagine di amore filiale: l’icona della Carità romana, ripresa da decine e decine di pittori (una donna che nutre col latte del suo seno il padre, imprigionato e condannato a morire di fame).

L’impatto emotivo dello spettacolo è forte, ma non mi sembra aggiungere nulla a quanto tanti di noi hanno elaborato, dolorosamente, di fronte al degrado fisico di una persona cara, allo sfaldamento della sua identità, alla distruzione della sua dignità; che sono poi segni premonitori della nostra propria morte. Né riesco a cogliere, malgrado l’incombente, quasi ipnotica immagine del Salvator Mundi di Antonello da Messina sul fondale, una convincente istanza religiosa, che il finale ad effetto declama, ma non incarna; né una catarsi che elevi il contingente (i reiterati scarichi di dissenteria) ad una dimensione universale. Poco comprensibile poi, sul piano stilistico, il virare dell’esasperato iperrealismo, perseguito ossessivamente in tempo reale nei primi quaranta minuti, nel gesto, puramente simbolico, con cui l’anziano lorda volontariamente il suo letto, versandovi da una tanica un liquido marrone.

Al di là delle intenzioni puntigliosamente dichiarate da Castellucci, il lavoro non mi sembra riuscito. Ma l’occasione ha fatto sì che l’intellighenzia milanese, che da troppo tempo appariva quasi rassegnata all’arroganza, alla manipolazione da parte del potere, si riunisse in un teatro, luogo deputato a dar voce a idee e passioni, per affermare, forte e chiaro, alcuni principi di civiltà.
Sarebbe bello, se ciò segnasse l’inizio di una nuova stagione.

Lumpatius Vagabundus