Arte è Gaia

Allo Sziget Festival di Budapest, la trasfigurazione, simbolica e reale, del gioco della vita ci porta nel labirinto delle scelte da cui, anche volendolo, scopriremo essere impossibile tirarsi indietro.

Dagli Skunk Anansie a Nick Cave and the bad seeds, da Regina Spektor ai Blur, dagli Afterhours ed Emir Kusturica a numerose “finestre” su musica ungherese e africana, della Nuova Zelanda e dello Zimbawe, della Bosnia e dell’Albania, della gipsy music del Rajasthan e dell’afro-latin-raggae. Lo Sziget Festival è una kermesse, lo dicono i nomi sopra citati, sicuramente grandiosa nelle intenzioni e in alcune partecipazioni. Purtroppo la scopriamo lacunosa in termini prettamente organizzativi e poco incline alla creazione di momenti di comunione tra i partecipanti (l’impressione è più quella di una mastodontica discoteca a cielo aperto che di una “island of freedom” e della musica). In questo contesto, il Labirinto dei Tarocchi del Living Picture Theatre, descritto semplicisticamente “performance e gioco di ruolo interattivo”, rappresenta una “sorpresa” stupefacente per solidità teorica e concretezza della realizzazione.

Una piccola e discreta struttura al centro dell’isola, esternamente dominata dal colore bianco, all’interno abitata da giovani interpreti che rappresentano gli archetipi delle rispettive carte dei tarocchi, dodici personaggi multicolore, ognuno in una stanza da trovare. Fuori, una lunga fila di “curiosi” che attende il proprio turno, visto che la location, forse un po’ stretta, non permette un ingresso in libertà. E poi quello che succede dentro. Uno schema semplice, tremendamente efficace e stupido da svelare nella sua effettiva messa in opera, essendo l’invito a soddisfare bisogni filosofici e psicologici di self-knowledge e a intraprendere – privatamente – ognuno la propria strada. Un percorso passibile di una durata variabile dai cinque minuti a tutto il tempo che serve (personalmente oltre due ore) e imprevedibile perché tale è stato concepito. Un’esperienza che sedimenta sulla pelle sotto forma di interrogativi dialogici con/tra gli abitanti del Labirinto, e che scende sempre più in profondità man mano che il gioco si fa duro. Fino a scoprire che la risposta non è fuori o dentro di noi, ma siamo noi.

Cosa si chiede, infatti, all’arte e all’esperienza artistica? Forse di dirci qualcosa, di noi stessi, che non sappiamo e, magari, attraverso quelle nostre stesse parole che ci appartengono e che, quindi, possiamo capire. Parole che – poste sul crinale tra ciò che è nel potere della (nostra) coscienza e ciò che invece vi è latente – ci sfuggono, ci attanagliano, a volte striscianti segni di desideri rimossi perché inopportuni e socialmente “sconvenienti”. Sono tormenti, questi ultimi, che tuttavia danno colore e spessore alle individualità, a dispetto di come lo sconcertante tentativo di omologazione massmediatica e consumistica abbia finito per farci pensare che l’uguaglianza sia un tratto somatico, culturale, politico o ideologico e non una condizione naturale fatta di diritti che nessuno può mettere in discussione. Non nel momento stesso in cui vengono goduti da qualcuno.

Allora, quale potrebbe essere la domanda che speriamo possa trovare risposta nell’arte o attraverso di essa? Forse quella fondamentale relativa a chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo? Oppure, più modestamente, quella capace di concedere almeno pochi istanti di tregua dalla frenesia in cui si è quotidianamente immersi e da quei ritmi esterni che avvolgono la vita? Aa volte piegandola a sé con la pretesa di screditarne la dimensione individuale e far “posto” a una sedicente collettività e ai suoi bisogni produttivi e politico-sociali: una creatura culturale, la collettività o roussoniana volontà generale, sicuramente priva di corpo (sfidiamo chiunque a incontrarla per la strada) se non anche di hegeliano spirito. Quindi incapace di restituire con i propri patimenti e sentimenti l’impegno del singolo nei confronti del suo mantenimento. Quante volte, infatti, le esigenze della maggioranza e le sue cause di forza maggiore, ipotetici beni la cui superiorità non ha padrone e non si sa da chi sia stata decisa, hanno finito per chiedere al singolo di immolarsi in suo nome? Basti pensare alle propagandate virtù della guerra contemporanea di fare la pace e portare benessere ai popoli, ovviamente imponendo loro la nostra versione occidentale.

Dunque, esiste davvero la possibilità della risposta alle nostre domande, qualsiasi essere siano, radicali o superficiali? Forse pensare di sì aiuta a dare un senso al tutto e a strutturare l’io. Forse pensare di sì, di sapere che abbiamo un io solido, definito e, più o meno, definitivo, permette di avere una bussola per orientarsi all’interno del labirinto della vita. Di quel labirinto all’interno del quale perdersi, donando al mondo la propria impronta, è la condizione stessa per scoprire la propria direzione, a patto di lasciare orme – attorno alle quali non girare intorno – abbastanza proprie da rappresentare il proprio vissuto. Quel tesoro misto di memoria, consapevolezza e aspettativa, di passato, presente e futuro, che rende ognuno quello che è hic et nunc, e che, se non abbastanza solido, il tempo potrebbe cancellare a noi stessi. Forse pensare di sì, allora, significa riconoscere che le domande sono importanti perché ci indicano immediatamente e spontaneamente cosa o chi stiamo cercando, gli Arcani del destino, personaggi dai mille colori da incontrare tra le stanze del labirinto che ognuno costruisce attorno a sé e la cui magnifica disponibilità sarà indispensabile per scoprire che esiste non la risposta alla domanda, ma solo la ricerca e la curiosità di farne e cercarle continuamente con gioia e apertura.

Allora, a muoverci verso una performance artistica è il dubbio, il desiderio di scoprire se esiste un senso alla storia e alla vita – non narrabile attraverso i coercitivi meccanismi della logica e della scienza? Oppure è l’arte che ci interroga, che tenta, amichevolmente, di metterci alle strette, per vedere l’effetto che fa? Chi è il vero protagonista di un evento artistico? Chi ha la responsabilità della sua riuscita? Che cos’è la riuscita? Forse, è il dono che, attraverso questo concreto Labirinto dei Tarocchi viene fatto a chi vi entra realmente e non solo teatralmente, disposto a esplorare qualsiasi cosa poi trovi dentro di sé. Abbandonando – così – ogni possibilità di indifferenza per concedersi un momento realmente rivoluzionario e capace di non cristallizzare il flusso e l’ebbrezza vitale, grazie a una ideazione registica e testuale favolosa e a interpreti straordinari nel creare un momento di sincera comunità dialogica con ogni astante.

Il Labirinto dei Tarocchi è tutto questo e nient’altro. Un’esperienza reale che cambia, muta e trasfigura chi vi entra e sente di poter riconoscere a nessun altro, se non a se stesso, la responsabilità di dirsi chi è realmente.
Genialmente semplice, semplicemente geniale.

La performance continua:
all’interno dello Sziget Festival 2013
fino a lunedì 12 agosto, dalle ore 14.00 alle ore 22.00

Living Picture Theatre presenta
The Tarot Labyrinth – Il labirinto dei tarocchi
di Zsófia Bérczi

Labyrinth designers: Zsòfia Bérczi (card and labyrinth layout, costumes), Tóbiás Terebessy – Medence Group (structural design)

CHARACTERS
Magician: Viktor Borbély
Priestess: Krisztina Birtalan
Empress: Judit Komáromi
Emperor: Barnabás Zemlényi-Kovács
Prophet: Péter Fehér / András Fenyvesi
Crossroads: Róbert Békefi
Chariot: Anita Gál
Justice: Laura Marx
Hermit: Gergely Mindák
Fortune: Tímea Kása
Strength: Médea Marosán Hanged
Man: Péter Farkas
Death: Boga Fenyvesi
Temperance: Zsófia Bérczi
Devil: Viktória Makra + Gábor Chován
Tower: –
Star: Nóra Csikós / Zsuzsanna Fenyvesi
Moon: Veronika Szabó
Sun: Heléna Hrotkó
Judgment: Bernadett Jobbágy
World: Orsolya Gerzson-Lipták
Fool: Zoltán Zemlényi-Kovács
Earth: Ágnes Sarlós
Gate: Virág Cserny / Mónika Király

ARTISTIC LEADER: Zsófia Bérczi