L’irruzione della parola di Shakespeare in carcere sconvolge la consolidata routine dei detenuti e rivela ancora una volta quanto precari siano i confini fra realtà e finzione.

In chi, come me, ha avuto frequentazione con il teatro in carcere, il film Cesare deve morire ha restituito situazioni ed emozioni note, ma ha anche suscitato un’ammirata gratitudine verso i fratelli Taviani, per aver saputo trasformarle in poesia, e in grande cinema.
In un video girato quasi vent’anni fa, una compagnia teatrale di Padova, il Tam Teatromusica, aveva coniugato “la cosa più bella e la cosa più brutta della città”: gli affreschi di Giotto e il carcere. Ricordo i tratti di quegli uomini, segnati dall’asprezza delle loro vite, che nel contatto con le posture e i colori di Giotto sembravano ingentilirsi.
Qui, invece, la parola di Shakespeare, virata in una pluralità di dialetti meridionali, penetrando i volti e i corpi dei carcerati si modificava, si deformava, arricchendosi di valori semantici, a volte sinistri, che vi erano impliciti, ma che credo nessun allestimento professionale avrebbe potuto restituire con quel tono di verità. Le espressioni “libertà”, “uomo d’onore”, pronunciate in quel contesto, avevano un suono disperato, o inquietante, come se facessero rivivere non solo l’uccisione di Cesare, ma il passato di violenza di ognuno di loro. Subito dopo l’inizio, lo schermo ci aveva palesato l’identità dei detenuti, presentandoceli l’uno dopo l’altro, come in foto segnaletiche, con l’indicazione del delitto e della condanna. Per alcuni, la scritta riportava: “fine pena mai”.
Il film, dopo averci mostrato in un crudo bianco e nero il tormentato, complesso percorso delle prove, accompagnandoci lungo i bracci e nei cortili assolati di Rebibbia, ritrova il colore iniziale per la rappresentazione finale nel teatro del reclusorio, ove per un’ora il tempo si è sospeso, e sono cadute le paratie che separano i carcerati dal mondo esterno. Dopo il rituale degli inchini al pubblico e degli applausi, esplode sul palcoscenico un entusiasmo violento, quasi feroce, come quello che tante volte ho visto concludere gli spettacoli a San Vittore, a Bollate, ad Arezzo. Poi, il carcere torna a inghiottire quegli uomini, e fra loro e il mondo si interpongono nuovamente, uno dopo l’altro, con stridore di ferro, cancelli e porte.
Per qualcuno, quell’esperienza ha offerto, la consapevolezza di un mondo diverso, cui non si erano mai affacciati, intravisto con difficoltà e perduto nuovamente, per sempre, come accade al prigioniero fuggito, e nuovamente incatenato, nella caverna di Platone. E dal quel mito sembra provenire l’ultima, straziante battuta del film, pronunciata da un ergastolano: “Da quando ho conosciuto l’arte,’sta cella è ridiventata una prigione”.

Lumpatius Vagabundus